Pagine

sabato 31 ottobre 2020

L'immagine come rappresentazione. Mimesi ed eccedenza del simbolo

Remedios Varo, La Despedida, 1958.

La domanda primaria, che spesso lasciamo sullo sfondo, è: che cos’è un’immagine? L’interrogativo è tanto semplice quanto difficile è trarne delle risposte. Prima di avventurarci brevemente su questa strada, viene avanti una considerazione:  le immagini sono nate con l’uomo. Il suo modo di rapportarsi con il mondo e di concepirlo passa inevitabilmente attraverso la costruzione di immagini, siano esse materiali o mentali. Le immagini sono al centro delle sue facoltà percettive ed espressive. Il ricordo, la memoria, il pensiero, l’immaginazione, l’espressione e la comunicazione fanno uso di immagini, eppure risulta difficile trovare una definizione che ne fissi il concetto in modo stabile. I tentativi nel corso della storia sono stati e continuano ad essere numerosi. Provando a districarsi nella miriade di teorie proposte inevitabilmente si ha l’impressione di essere su un terreno insidioso o di perdersi all’interno di labirinti in cui l’oggetto che si rincorre resta fuggevole e inarginabile.
Jean-Jacques Wunenburger così apre la sua Filosofia delle immagini (1999): “Possiamo chiamare convenzionalmente immagine una rappresentazione concreta, sensibile (a titolo di riproduzione o copia) di un oggetto (modello referente), materiale (una sedia) o concettuale (un numero astratto), presente o assente dal punto di vista percettivo, e che intrattiene un tale legame col suo referente da poterlo rappresentare a tutti gli effetti e consentirne così il riconoscimento e l’identificazione tramite il pensiero.”
Questa definizione mette al centro della questione il rapporto dell’immagine con un modello che faccia da referente. L’immagine sarebbe dunque una rappresentazione, cioè la ri-presentazione di un oggetto, che lo rende visibile quando questo è materialmente assente. Questa definizione, implicando un principio di ‘raddoppiamento’, dà all’immagine una valenza mimetico-riproduttiva, in quanto, “imitando” l’oggetto assente, essa consente di riprodurne la percezione. 
Rappresentare significa sostituire un’assenza con una presenza - che è, tra l’altro, la struttura generale di qualsiasi segno. Per quanto riguarda le immagini, questa sostituzione è regolata da un’economia mimetica; è cioè la somiglianza dell’immagine con il suo referente che autorizza l'operazione di sostituzione.
Tuttavia, scrive ancora Wunenburger, la rappresentazione deve essere somigliante al modello, per poterne essere immagine, e nello stesso tempo deve esserne sufficientemente distinta, per poter apparire come immagine e non come l’essere originario. L’immagine, dunque, “presenza di una ‘assenza’ o viceversa”, secondo la definizione di Hans Belting (Immagine, medium, corpo. Un nuovo approccio all’iconologia in Pinotti A. – Somaini A., a cura di, Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Milano 2009) si caratterizza per l’assenza dell’oggetto rappresentato con il quale mantiene, tuttavia, una relazione di necessaria e mutua dipendenza. La mimesis, ovvero la capacità dell’immagine di duplicare il reale, determina uno sdoppiamento all’interno dell’immagine stessa. Da un lato l’immagine, grazie alla somiglianza, ripropone un oggetto assente rendendolo presente; dall’altro, il suo essere riproduzione sottolinea l’assenza dell’oggetto stesso. Nell’immagine – che, in quanto riproduzione e non originale, è distante dal proprio referente - l’Essere (che è assente) si distacca dalla sua Forma (che è invece presente). L’immagine, dunque, come le ombre proiettate sulla caverna del mito platonico, mette in luce l’assenza dell’oggetto rappresentato: se c’è l’immagine di conseguenza non c’è l’oggetto. Mantenere le due entità su piani distaccati è fondamentale per comprendere la reale natura dell’immagine: una rappresentazione, in quanto raffigurazione di una divinità, di una persona, di un paesaggio, di un oggetto o di un’idea, non è quella divinità, persona, paesaggio, oggetto o idea, ma solo ed esclusivamente la sua messa in immagine. 
Tuttavia la vera grande forza delle immagini non risiede nel loro darsi come rappresentazioni di oggetti assenti ma, al contrario, nella capacità di rievocarne la presenza attraverso la loro messa in immagine. Questa infatti, se da un lato è la prova dell’assenza del referente, dall’altro è l’unico mezzo in grado di riconsegnarlo alla nostra esperienza, ovvero, di rendercelo presente. Si determina, dunque, al fondo di ogni immagine, una tensione tra il vuoto nichilistico determinato dalla scomparsa dell'Essere e la spinta indessicale che all'Essere punta evocandolo.

Se si riflette sul rapporto che si determina nella fruizione di un’immagine, tuttavia, ci si rende conto che la sua valenza mimetica non esaurisce quella relazione. L’immagine, infatti, non consente solo un’attività percettiva di qualcosa che non è presente e a cui somiglia. Non si limita a sostituire l’oggetto assente, ma spesso lo evoca come metafora o come simbolo, come richiamo o metonimia, come attività poietica o conoscitiva, in grado di disvelare l’essenza invisibile dell’oggetto. Tra l’immagine e il suo referente si determina uno scarto, una ‘dissomiglianza’, che permette alla prima di acquisire una sua autonomia poietica e di assurgere a ‘luogo’ in cui si costruisce un senso, che è altro rispetto alla semplice duplicazione dell’oggetto. Un'immagine che cercasse di rendersi del tutto simile al suo referente, dopotutto, non sarebbe altro che un'illusione, un prodotto che mirerebbe a ingannare i sensi piuttosto che a indicare un'assenza.
Il senso di una rappresentazione non si esaurisce in ciò che è rappresentato. Il senso è piuttosto paragonabile a un orizzonte che oltrepassa la mimesi, a quell’eccedenza che va al di là della rappresentazione intesa come ri-presentazione dell’oggetto, restituzione del mondo in immagine, pur riconoscendo che sono queste immagini materiali a costituire il punto di partenza da cui si attinge lo spazio dell’invisibilità: sebbene il senso dell’immagine si trovi oltre la superficie delle forme, queste rappresentano la condizione necessaria all’esistenza dell’immaginario che le trascende (cfr. Elio Franzini, Fenomenologia dell’invisibile, 2001). 
Non si tratta di ipotizzare un mondo ideale nascosto dietro le forme apparenti di quello materiale. Al contrario si tratta di riconoscere come siano le forme sensibili in grado di far scaturire da esse stesse un significato che oltrepassa il dato visibile. Per Cassirer le forme simboliche, come l’arte e il linguaggio, non sono imitazioni della realtà, ma organi di essa, in quanto solo per mezzo loro il reale può essere assunto a oggetto della visione spirituale (Cassirer Ernst, Linguaggio e mito, Milano 1961, Il Saggiatore). 
D’altra parte, se in un primo momento l’immagine rappresenta il supporto necessario affinché lo spirito si “autodispieghi” e divenga visibile, in un rapporto che vincola la sua esistenza alla materia che lo contiene, in un secondo tempo l’invisibile si distacca dalla materia per generare una catena di significati che vanno oltre di essa. 
“Apprendere il senso profondo dell’immagine implica in realtà, al di là della percezione del senso immediato, il disvelamento di un senso indiretto e nascosto, di cui solo una parte, la più superficiale, si concede all’intuizione immediata” (Wunenburger, op.cit.). L’immagine è un’unione inscindibile di visibile e invisibile, di forma e significato, “quella attività produttiva mediante la quale lo spirito si dà una propria realtà, un proprio mondo ordinato e formato, una propria esperienza significativa” (Sini, Carlo, Il simbolo e l’uomo, Milano 1991, EGEA). L’immagine simbolica, pertanto, non è il doppio, il simulacro che prende il posto del mondo, ma, al contrario, è ciò attraverso cui attingiamo la profondità del mondo.
Fruire un’immagine in pienezza significa trarre il trascendente dall’immanente, l’intellegibile dal sensibile, dispiegare l’invisibile inscritto nella forma visibile che offre alla mia visione. L’immagine, insomma, non è mai quadro definitivo e statico, ma è sempre un processo che scandaglia i possibili livelli di interpretazione e di significato.
L’immagine non si arrende alla datità della mimesi, ma si dischiude all’universo delle possibilità molteplici e inesauribili del senso. Questa eccedenza rispetto al dato sensibile spinge la rappresentazione oltre la sua funzione mimetica, rendendola piuttosto un processo, un congegno che coinvolge diversi aspetti dell’immagine. Questa, infatti, oltre che ri-presentare un contenuto sensibile assente, presenta anche se stessa. Come scrive Louis Marin, nel concetto di rappresentazione è insita una doppia valenza, dal momento che essa, oltre a presentare qualcos’altro da sé, esibisce anche se stessa in autonomia, in quanto immagine, fatta di forme, colori, sostrato materico. In altre parole, ogni segno o processo rappresentativo include una doppia dimensione, una dimensione transitiva (rappresentare qualcosa di altro da sé) e una dimensione riflessiva (presentare se stesso). Louis Marin propone per la prima dimensione il termine di ‘trasparenza’ e per la seconda quello di ‘opacità’.

Nell’ambito degli studi sulla cultura visuale, più che puntare l’attenzione alla valenza rappresentativa dell’immagine, la si considera un prodotto culturale. Un oggetto visuale non è solo una image, cioè un contenuto figurativo, ma anche una picture, cioè un dispositivo mediale. Questo termine fa riferimento a quegli elementi, interni ed esterni, che contribuiscono a “disporre nello spazio” l’immagine e a delineare il suo rapporto con lo spettatore giungendo a determinarne lo sguardo. «Le immagini sono “visualizzazioni” dotate di una natura attiva, produttiva, fanno emergere qualche cosa che non c’era prima di loro, esse sono e non rappresentano qualche cosa che prende forma come visione» (Breidbach O., Vercellone F., Pensare per immagini. Tra scienza e arte, Milano 2010, p. 97). 
L’immagine è, dunque, prima di tutto un oggetto fisico, che occupa uno spazio, sintesi delle conoscenze di cui è portatrice e delle sue componenti materiali. Tuttavia non è un  prodotto statico, ma un luogo che attiva processi di visione e stimola produzioni di senso. L’eccedenza, o meglio le pratiche che ne esplorano il darsi multiforme, permettono all’immagine di emanciparsi dalla sua referenza (“è immagine di”), di non proporsi come forma priva di essere. L’immagine, piuttosto, afferma un proprio ‘essere’, si propone come soggetto, luogo di pratiche e di negoziazioni con altri soggetti.
La rappresentazione è solo una delle potenzialità dell'immagine; il riconoscimento del referente è solo una delle possibili richieste che le immagini fanno allo spettatore. Perché le immagini, più che riprodurre la realtà, contribuiscono a crearla, a fornirle una configurazione esperibile e suscettibile di senso.



Nessun commento:

Posta un commento