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lunedì 6 luglio 2020

Un dramma all'infrarosso. "Virus" di Antoine d'Agata

Antoine d'Agata, Virus, 2020

Tanti progetti fotografici hanno preso vita durante il periodo dell’emergenza Covid-19, al fine di raccontarlo, di descriverlo, di realizzare documenti e narrare storie. Tutti si sono trovati, chi più chi meno, a porsi la stessa domanda: come mostrare, come rendere visibile il nemico contro cui l’intera umanità stava combattendo la propria battaglia se quel nemico restava invisibile agli occhi umani, talmente minuscolo da introdursi subdolamente nei corpi e colonizzarli, come uno spietato invasore?
E’ stata questa la prima sfida che si è presentata davanti a chiunque si sia posto l’obiettivo di mostrare per immagini cosa stava succedendo: il fronte non era un territorio di confine, né un quartiere strategico. Il campo di battaglia non era uno spazio da conquistare o difendere armi in pugno, ma era lo stesso corpo umano, con la sua fragilità, esposto al contagio di un agente invisibile, che non conosce confini.


Rendere visibile ciò che è invisibile agli occhi umani. Questa la prima esigenza, non solo da parte di chi voleva mostrare e raccontare, ma anche di chi perseguiva il contenimento del contagio. Un’esigenza che richiede il soccorso della tecnologia, come gli esami di laboratorio o strumenti quali i termoscan, da collocare negli aeroporti o all’interno dei supermercati e dei luoghi di lavoro, per misurare la temperatura, cioè il calore rilasciato dai corpi, sintomo probabile di quell’infezione da rilevare e arginare.
Nel progetto fotografico Virus, realizzato da Antoine d’Agata con l’ausilio di una termocamera, vediamo figure umane e paesaggi urbani ripresi come all'interno di un viaggio allucinante, attraverso una città diventata un teatro incandescente in cui si aggirano figure spettrali, senza volto, come le anime dei dannati avvolti dalle fiamme nel girone dantesco delle Malebolge. L’autore ha scattato migliaia di immagini, la metà nelle strade vuote di Parigi, l’altra metà in vari ospedali, in cui ha ripreso pazienti e personale sanitario impegnato nella cura.
Le termofotografie di Virus disegnano un luogo immaginario, bidimensionale, svuotato di volumi e di profondità, che sembra formato da pastose e accese pennellate di colori primari, il blu, il rosso e il giallo; tre tinte per denotare tre diversi modi di essere della materia: il freddo, il tiepido e il caldo, dove gli estremi definiscono un dualismo radicale: la separazione tra l'inerte e l'animato, tra ciò che è materia morta e ciò che è organismo vivente o comunque in grado di assorbire calore.
L'impressione di pittura astratta e digitale, accentuata dalla bassa risoluzione delle immagini e dalla discontinuità dei pixel, è molto forte. Eppure si tratta di tracce a tutti gli effetti, di oggetti indicali come le fotografie, che trattengono l'impronta termica piuttosto che quella fotonica.





In questo caso, il ricorso alla tecnologia ad infrarosso è ben più della scelta di una tecnica: è un linguaggio che si adegua all’oggetto che vuole rappresentare e alla sua multiformità. Vedremo ora come tale modalità espressiva riesca, in primo luogo, a rendere, a diversi livelli, l’ambivalenza che ha caratterizzato questa esperienza di emergenza sanitaria e questa condizione esistenziale.
Innanzitutto il modo in cui questo dispositivo termodinamico registra le diverse radiazioni infrarosse emesse dai corpi riduce i soggetti umani a figure essenziali, prive di connotazioni individuali. Le sagome incandescenti evidenziano una caratteristica primaria: l’essere in vita del soggetto, perché solo i corpi vivi, in cui scorre il sangue, emanano calore. I corpi freddi, in cui la vita si è spenta, restano opachi, invisibili, indistinti rispetto alla materia inerte. E, tuttavia, il calore è anche uno degli indizi principali che vengono rilevati ai fini della diagnosi di contagio. Insieme segno di vita e segno di pericolo: ecco la prima ambivalenza che ci riporta a quel connubio inscindibile di vita e di morte che lo stesso autore vede come nucleo centrale di questo progetto e dell’intera sua opera di artista.
La fotografia produce immagini che ci restituiscono l'apparenza visibile delle cose e dei corpi viventi, fermandosi in superficie. La termocamera, che opera nella banda di frequenza inferiore a quella della luce visibile, va oltre, penetra i corpi, producendo un'immagine dell'invisibile, di un dato sensoriale inaccessibile alla vista umana. Attraverso l'obiettivo di questo tipo di macchina, solo ciò che emana calore acquista uno sprazzo di figura, il resto è inghiottito dall'informe. Le sagome luminose nelle strade cittadine, come nelle stanze di ospedale, mostrano il proprio essere in vita e, nello stesso tempo, sono identificate quali possibili vettori di contagio. Le fotografie all'infrarosso hanno reso visibile il nemico invisibile, che non è solo il virus, ma anche ciò che lo incuba, lo trasporta e lo diffonde: il corpo vivente.
Ma non c'è solo questo.





La tecnica di visione all’infrarosso è generalmente utilizzata per scopi di sorveglianza oppure militari, come nell’imminenza di un attacco armato. Le immagini prodotte da questa tecnica ci rimandano, pertanto, a un immaginario distopico, legato ai timori nei confronti di una tecnologia di controllo e di morte. Ed è questa la sensazione che ci suscitano le termografie scattate nelle strade cittadine, che sembrano attingere a un repertorio di sopralluoghi notturni militari. Guardando le immagini scattate all’interno dei luoghi di cura, invece, l’impressione che abbiamo è diversa. Ciò che vediamo sono sagome umane fosforescenti che risplendono nel buio; corpi vicini ad altri corpi, come alle prese con rituali arcaici e misteriose cerimonie di guarigione. Corpi che si scambiano gesti di tenerezza e di affetto, corpi che sembrano bruciare di amore, trasfigurati come apparizioni sacre. Morte e vita ancora fuse insieme, in un amplesso impossibile da sciogliere. Eros e Thanatos: le uniche due presenze che hanno potuto, per tutto il periodo, perpetrare il loro abbraccio fino all’ultimo respiro.
Le immagini realizzate nelle strade urbane ci mostrano invece corpi distanziati e molto spesso solitari, vite ai margini, sospese in un tempo che sembra essersi arrestato. Niente gesti di vicinanza, nessun contatto fisico tra loro; solo tanta solitudine, un dolore pesante che accascia i corpi per terra oppure una tensione latente sul punto di esplodere insieme a tutto il resto.




Violenza e dolcezza, sorveglianza e solidarietà: come afferma lo stesso d’Agata in questa intervista (qui), le immagini di Virus non vogliono descrivere la realtà, ma farci accedere a un altro livello del reale; non vogliono raccontare l’emergenza e l’orrore della pandemia come l’abbiamo vista in quei giorni su tutti gli schermi, ma metterci al cospetto di una dimensione spazio-temporale in cui la vita e la morte si confondono, una dimensione molto simile a quella propria dell’intera produzione di questo artista, caratterizzata da immagini in cui il connubio di Eros e Thanatos impone la sua legge al di là del bene e del male, al fine di tornare all’unità dell'essere, superando la discontinuità delle vite individuali.



La notte con le sue atmosfere indistinte, e tutto ciò che racchiude, ha sempre costituito l’ambientazione preferita delle fotografie di d’Agata. E protagonista della sua opera è sempre stato il corpo e la sua dissoluzione, il corpo non come figura, bensì come mera presenza, come nue vie, che rivendica il proprio semplice esserci. Il “corpo senza organi” descritto da Deleuze e Guattari in Mille plateaux, portato oltre i confini di se stesso e fuso con altri corpi e con lo spazio circostante. La sua opera si è sempre mossa nella ricerca di un’interiorità estrema, che superasse i limiti che definiscono i contorni fisici e sociali dell’individuo. In questo progetto non lo fa ricorrendo come sempre alle sfocature e al mosso violento, ma a una tecnologia diversa, che registra le radiazioni infrarosse, affidandosi, in ogni caso, alle possibilità dello strumento, che svuota gli spazi di ogni elemento inessenziale e rende i corpi delle macchie di luce astratte, degli aloni incandescenti. La “nuda vita” – che dà il titolo al video realizzato con queste immagini - è quella di un'umanità ai bordi delle strade, alle prese con brutalità e vulnerabilità, solitudine e desiderio di vivere. Questa forza primordiale è qui un’emanazione di calore, sintomo dell’universale legge del caos descritta dal secondo principio della termodinamica, quello che parla dell’entropia che regola la vita del nostro universo, votato a un progressivo svuotamento di energia e quindi alla dispersione termica e alla morte. E nello stesso tempo, quell’emanazione di calore è segno di vita, di flusso vitale, di sangue pulsante.
Osservando le fotografie riunite in uno sguardo d'insieme, che danno l'immagine di un mondo che sta per deflagrare, investito da un corpo celeste o da un ordigno nucleare, le cose e i corpi sembrano sul punto di dissolversi sotto forma di luce, per tornare a far parte della materia primigenia da cui derivano: le stelle luminose, dalla cui attività provengono gli atomi di cui è composta ogni cosa e ogni essere vivente sulla terra.



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