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giovedì 16 luglio 2020

OMBRE SOSPESE, di Andrea Taschin

Andrea Taschin, Ombre Sospese, 2020

Tra i tanti progetti fotografici realizzati nei mesi di lockdown, uno in particolare ha attratto la mia attenzione, per la sua solidità concettuale, per la sua essenzialità e nello stesso tempo efficacia visiva (e perché tratta del tema dell’ombra, uno dei miei interessi da anni) .
Si tratta di Ombre sospese, di Andrea Taschin.
(A questo link il suo sito: qui)

Di seguito, invece, le mie riflessioni su Ombre Sospese.

L'ombra è un'immagine in negativo di noi, o meglio del nostro corpo che, in quanto formato di massa opaca, è in grado di assorbire la luce. È attaccata ai nostri piedi dalla nascita e ci segue o ci precede senza che ci si possa sbarazzare di lei. E se ciò accade, se la nostra ombra si stacca da noi come nelle favole, allora potrebbe diventare il nostro doppio (Doppelgänger), l’alter ego che ci perseguita, come avviene nella fiaba di Andersen intitolata, appunto, L'ombra, oppure trasformarsi in un folletto dispettoso e riottoso come quella smarrita da Peter Pan.

In fotografia sono frequenti le ombre ‘indipendenti’, cioè le ombre prive di referente; si tratta generalmente dell’ombra portata dello stesso fotografo, la quale entra nell’inquadratura intenzionalmente o accidentalmente. In questi casi, l’ombra continua fino ai bordi dell’immagine, richiamando immediatamente l'oggetto fuori campo che la produce, generando un legame ideale con la parte della scena esclusa dall’inquadratura, portando altresì lo spettatore a includere virtualmente nella percezione il corpo rimasto all’esterno.
Nel progetto “Ombre Sospese” (collage formato di sole ombre, private dei corpi di chi le produceva) abbiamo invece solo sagome indipendenti, prive del tutto di ogni rimando al referente. Non si allungano fino ai bordi della cornice, rivelando la propria natura metonimica e alludendo al corpo che le proiettava, ma occupano il centro di ogni tassello del mosaico come figure compiute e definite, protagoniste assolute dell’azione. Sono rimaste del tutto orfane del soggetto che le generava, finalmente libere da ogni vincolo che le teneva legate ai corpi e adesso vagano per le strade luminose della città.
Il paradosso visivo crea un impatto surreale, che disorienta lo spettatore. Un’ombra è sempre prodotta da un corpo solido, che qui, però, non c’è. Ciò che prima era l’indice di una presenza, ora è diventato la traccia di un’assenza, un segno disincarnato, autosufficiente e autonomo. I corpi, con il loro volume e la loro consistenza, sono scomparsi. Perché i corpi, nel frangente storico ‘raccontato’ da queste fotografie, che è quello della pandemia, sono possibili vettori di contagio del virus e non possono più circolare per le strade, né tantomeno incontrare altri corpi. Le ombre sono i simulacri di un’esistenza ancora in atto, segni di vite che continuano ad essere, ma in altri luoghi, oppure alter ego ribelli, che infrangono le regole del lockdown per riappropriarsi della città. O forse l’incantesimo generato dalla pandemia le ha fissate sull’asfalto e da allora attendono il ritorno dei ‘proprietari’, quando saranno finalmente liberi di uscire dalle proprie case.
Sono le presenze di un tempo sospeso, metafore visive di esistenze che girano intorno alle poche attività consentite: fare la spesa, andare a lavorare, portare a spasso il cane. In quel frangente di deprivazione sociale e sensoriale, non ci sentivamo forse un po’ tutti delle ombre di noi stessi?
Queste sagome per lo più solitarie, macchie nere svuotate di volume, le percepiamo allo stesso tempo familiari ed estranee e questa ambiguità ci genera un sentimento di inquietudine. Così fissate e immobilizzate sulle strade, le figure umane, ormai solo tracce di individui senza più un’identità riconoscibile, vivono in una superficie monocromatica e bidimensionale e hanno la stessa consistenza di fotografie in bianco e nero.
La composizione delle immagini, tuttavia, non abbandona le ombre in totale anarchia, ma le compone in un telaio rigido: le sagome, ognuna incorniciata nel suo spazio, che è discontinuo rispetto a quelli adiacenti, sembrano provenire dalle quattro direzioni e convergere – ordinatamente e rimanendo rigorosamente distanziate, quasi obbedendo a un impulso automatico - tutte quante verso il centro, verso un luogo enigmatico che è uno spazio vuoto, marcato da un segno che è l’impronta di una curva che gira su se stessa. Dove stanno andando? La meta è nient’altro che un punto indeterminato, un luogo privo di ogni altra connotazione che non sia il movimento di un girare in tondo. L’entrata di un baratro o la porta di uscita verso la salvezza?
L’inclinazione delle ombre e del piano delle strade ci rivela un’altra cosa: il punto di vista di chi le ha guardate – e riprese – è posto in alto. Si tratta di fotografie scattate da una finestra, che nel periodo del lockdown incorniciava la nostra visuale quotidiana e delimitava il mondo, ridimensionato nel ritaglio di tali dispositivi domestici di inquadramento. E da quel punto di osservazione, a cui la pandemia teneva imprigionati i corpi, la strada diventava lo schermo di proiezione di una condizione particolare dell’esistenza, fatta di dubbi, paure, desideri. Uno schermo ricostruito nella forma di collage, frammentato, composto da tanti piccoli schermi, entro i quali ogni ombra è rinchiusa senza poter uscire per accostarsi ai propri simili; un mosaico di tessere tanto regolari quanto componenti uno spazio incongruo e disarticolato.
Questo progetto esprime bene uno degli aspetti più significativi della nostra esperienza della segregazione in tempo di pandemia: la messa in discussione della dimensione corporea dell’individuo. Se la proiezione di un’ombra rappresenta il segno incontrovertibile della consistenza materiale di ogni cosa, un quadro di sole ombre, prive di corpi, è l’immagine efficace di una comunità che, per mesi, ha dovuto mettere da parte l’elemento al tempo stesso più vulnerabile e insidioso: la propria corporeità.
Nella città vuota, diventata mondo di ombre, come un mitico Averno balzato alla luce del sole, circolavano solo i nostri spettri, o i nostri avatar, circondati ognuno dalla propria invalicabile cornice, così come i corpi restavano chiusi nei confini ristretti delle proprie case: segni della nostra scomparsa e della nostra brama di vita, creature di un nuovo teatro dell’assurdo o di un mondo distopico, in una dimensione sospesa tra passato e futuro.

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