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lunedì 23 settembre 2019

Maschere senza volto. I ritratti in serie di Andy Warhol

Andy Warhol. Untitled from Marilyn Monroe. 1967

Con Duchamp si realizza il pieno rifiuto dell’arte come rappresentazione: artistico non è il gesto che riproduce l’oggetto sulla tela, ma quello che preleva l’oggetto dal contesto quotidiano e lo riposiziona. Tuttavia, ciò che per Rosalind Krauss segna il transito dal moderno al post-moderno, è un passaggio ulteriore: la moltiplicazione dell’oggetto in più copie. Nella ripetizione in serie si consuma definitivamente il superamento della concezione di originalità dell’opera d’arte che ancora pervadeva le avanguardie storiche, compreso il Dadaismo (Duchamp, infatti, nell’atto di ricollocarlo, firma e titola l’oggetto, distinguendolo dagli altri simili). Ed è ciò che accade con la Pop Art.
L’arte della Pop Art, e quella di Andy Warhol in particolare, abolisce definitivamente la distinzione tra arte e vita e crea l’iconografia della moderna civiltà dei consumi di massa, trasformando in icone vere e proprie gli idoli della società americana, sia quelli commerciali che quelli mediatici, in quanto entrambi oggetti di desiderio e di consumo.

Le Campbell’s Soup Cans e le bottiglie di Coca-Cola inaugurano l’estetica delle serie, possibile grazie alla tecnica utilizzata, la serigrafia, un procedimento mutuato dall’industria pubblicitaria. La costante ripetizione dell’oggetto da un lato ricalca la distribuzione delle merci nei luoghi in cui sono esposte per la vendita e dall’altro tende a negarne la consistenza reale e a rafforzarne lo statuto iconico.


Ma oltre alle bottigliette e alle scatole di zuppa, è la rappresentazione del volto umano il cuore dell’opera di Warhol. E’ la tragica morte di Marilyn Monroe a spostare l’interesse di Warhol dagli oggetti alle persone nel 1962, anno in cui comincia a eseguire i celebri ritratti della diva americana.
Attraverso l’uso di colori irreali, saturi e contrastanti, della serigrafia e della ripetizione, Warhol porta il ritratto in un territorio fino ad allora sconosciuto, teso alla rimozione di ogni dimensione emotivo-drammatica e allo svuotamento dell’immagine di quegli elementi che conferiscono al ritratto vitalità e individualità identitaria. Il volto della donna, ormai solo diva e oggetto di consumo, si riduce ad un semplice cliché artificiale e spersonalizzato.
Per realizzare le serigrafie Warhol utilizza una fotografia, il poster promozionale del film Niagara, di cui la Monroe era stata protagonista. I suoi ritratti non raffigurano, pertanto, un soggetto reale, ma non fanno altro che rielaborare un’immagine preesistente, utilizzata alla stregua dell’etichetta di una merce. Osservando queste serigrafie in serie, come quelle di altri personaggi dello star system americano incarnanti l’ideale di bellezza (Liz Taylor, Jackie Kennedy), ci si accorge di come l’interesse dell’artista si concentri non tanto sui tratti del viso, che restano abbastanza essenziali, quanto sul trucco, pesante e marcato, che disegna una sorta di maschera in disfacimento e sparge sul ritratto un senso di morte.


Ethel Scull 36 Times, 1963.
Il volto di Marilyn Monroe è ripetuto per ogni modulo con variazioni di colore. Una costante è che la tonalità del trucco delle palpebre è sempre uguale a quella dello sfondo del quadro. Nell’insieme si forma un effetto decorativo che accentua l’aspetto bidimensionale dell’opera. Ogni singolo modulo, di forma quadrata, è privo di alcuna profondità spaziale. Proprio come l’icona classica, il ritratto di Marilyn occupa quasi tutta la superficie, stagliandosi contro un fondo uniforme, che mette immediatamente in evidenza la sagoma già molto riconoscibile del personaggio. Anche la ripetizione fa parte della tradizione delle icone, che infatti non erano altro che la riproduzione di un prototipo originario.
Il ritratto non è un quadro unico, ma costituisce una declinazione seriale, formata da immagini identiche e nello stesso tempo diverse. Il lavoro di percezione dell’osservatore, pertanto, è chiamato a scandire l’intera serie. Il ritratto non costituisce più un riflesso unico e stabile ma diventa un’immagine sincopata. Marilyn sembra attualizzare l’antico mito di Venere, ma l’ideale viene deturpato dalla ripetizione, che rende l’immagine un’etichetta riciclata, un’astrazione da marchio pubblicitario, degradando il mito allo stesso valore delle scatole di pomodoro e delle bottiglie di Coca-Cola.


Il ricorso ad immagini fotografiche e alla serigrafia priva l’atto artistico dell’apporto manuale tradizionale e permette all’artista di assumere una posizione distaccata e fredda nei confronti del soggetto e dell’opera, perché ciò che produce non sono ritratti che cercano di esplorare l’individuo, ma di rendere immediatamente evidente come l’elaborazione collettiva dell’idolo non faccia altro che livellare, uniformare, negare la singolarità, producendo simulacri vuoti, fatti di pura esteriorità. La tecnica di riproduzione serigrafica, in quanto permette la duplicazione a partire da un originale, è funzionale a uno stile basato su stereotipi figurativi e avvicina la figura umana all’etichetta industriale, dalla forma impoverita e semplificata tale da poter essere riprodotta in serie.
Warhol non riproduce l’oggetto, ma una riproduzione dell’oggetto: non dipinge una scatola di zuppa, ma la sua immagine pubblicitaria così come non dipinge Marilyn Monroe ma una sua fotografia. Ed è proprio questo fatto ad essere evidenziato dalla ripetizione in serie: l’arte non ha a che fare con oggetti, ma con le loro riproduzioni, cioè con segni, già elaborati dal sistema culturale di origine e già divenuti oggetto di consumo di massa. In questo modo Warhol riesce a rivolgersi allo spettatore nel modo diretto che è proprio dei media, offrendogli delle immagini che già conosce e in cui si rispecchia.

Mao Tse-Tung, 1972

Nella logica della Pop Art, sembra che tutto ciò che nella realtà riguardi la produzione di significato possa essere, in linea di principio, ridotto a simulacro. Anche i ritratti successivi di personaggi famosi, infatti, come ad esempio Lenin e Mao, saranno svuotati di ogni contenuto e valenza politici e saranno oggetto di rappresentazione solo in virtù del loro status di oggetto di culto, cioè in virtù del fatto che costituivano già delle icone di consumo di massa.
La Pop Art, dunque, non decontestualizza oggetti, ma segni, produzioni mediatiche. Questo significa che non opera alcuna rottura critica rispetto al sistema di mercificazione che ha prodotto quei segni, non prende polemicamente le distanze da quel mondo basato sul consumo, ma fa tutt’uno con esso. Non mira a trasformarlo, come provavano a fare i dadaisti e i surrealisti, ma ad integrarsi nella sua reiterazione di segni. Come i ready-made di Duchamp, gli oggetti di consumo di Warhol subiscono un processo di ricontestualizzazione ma, al contrario dei primi, evitano quello di risemantizzazione. La produzione artistica non cerca di elaborare un orizzonte nuovo per il mondo del prossimo futuro, ma si annida comodamente nella sua logica presente, traendone materia di espressione e di legittimazione. Il consumo estetico che crea coincide con il consumo di merci, cooptando perfino il linguaggio e la tecnica dei mass media e della pubblicità. Di qui la straordinaria interconnessione tra Warhol e il mercato.
Questa interpretazione simulacrale dell'opera di Warhol è stata elaborata dai filosofi francesi poststrutturalisti, in particolare da Baudrillard, per il quale scopo della Pop Art era quello di suscitare non un interesse per l’oggetto in sé ma per la sua immagine, intesa come vuoto involucro estetico. Il simulacro, cioè l’immagine priva di contenuto, ha perso ogni rapporto con la realtà; l’immagine prodotta in serie è ridotta a puro segno, a mera superficie, senza più un significato profondo, privata del referente che è stato diluito nelle ripetizioni. L’arte si è riempita dei simulacri vuoti della civiltà dell’immagine, delle copie di copie, maschere con niente dietro. Per Baudrillard, Warhol è un autentico artista postmoderno, in quanto ha superato il secolare dilemma della mimesi, cioè del rapporto tra oggetto reale e riproduzione, ricorrendo alla deriva del simulacro, che elimina l’oggetto a beneficio del feticcio dell’immagine assoluta.
Altre letture dell’opera di Warhol, invece, recuperano il legame della sua arte con la realtà; in particolare quella di Hal Foster il quale, introducendo la nozione di “realismo traumatico”, vede nelle ripetizioni ossessive non l'annullamento del reale, ma il tentativo di schermarlo al fine di proteggersi dai suoi effetti traumatici.


In ogni caso, lo studio della Pop Art resta imprescindibile per comprendere la svolta della contemporaneità. Scrive Di Giacomo:
“Si tratta, insomma, di dipingere «quello che siamo»: è come se Warhol voglia fare entrare quanto di più ordinario offre la produzione grafica all’interno del recinto sacro dell’arte seria, dato che, se tutti capiscono quelle immagini, è perché il mondo che esse proiettano è il mondo di tutti. […] In effetti, la Pop Art è uno degli elementi che contribuisce alla dissoluzione dello spirito del modernismo e all’inizio di quell’era postmoderna nella quale ancora viviamo. […] In un certo senso Warhol è un seguace di Duchamp, ma se Duchamp tenta di liberare l’arte dalla necessità di risultare piacevole all’occhio e si interessa a un’arte intellettuale, le ragioni di Warhol sono invece più strettamente politiche, dal momento che celebra la vita americana di tutti i giorni: la sua arte è una esaltazione di ciò che ogni americano sa. […] In definitiva tutto può essere un’opera d’arte e questo significa, come minimo, che è cominciata una nuova era nella storia dell’arte, nella quale non si possono più distinguere le opere dalle mere cose, per lo meno in linea di principio: è questa l’era che Arthur Danto definisce «la fine dell’arte»” (Giuseppe Di Giacomo, Fuori dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi).

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