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domenica 7 luglio 2019

Il corpo nella fotografia surrealista. Le donne di Man Ray

Man Ray, Le violon d'Ingres, 1924.

Potrebbe, a prima vista, sembrare contraddittoria la definizione di fotografia surrealista, cioè l’accostamento tra una pratica che un secolo fa veniva ancora considerata come una registrazione automatica del reale e un movimento artistico che invoca invece la surrealtà, cercandola nella dimensione del sogno e dell’inconscio e ricorrendo ad alcune tecniche, come quella della scrittura automatica. E invece proprio la fotografia, con le sue caratteristiche di taglio, di inquadratura, di rapporto di luce e ombra, può essere a pieno titolo considerata una forma di scrittura. E in tal senso la intendono i surrealisti, che amplificano proprio questo aspetto dell’immagine fotografica, ricorrendo a una serie di pratiche e di artifici che ne enfatizzano la natura di segno, saggiando le possibilità espressive del mezzo fotografico: solarizzazioni, fotomontaggi, sovraimpressioni, esposizioni multiple, collage, bruciature e pietrificazioni, tecniche di manipolazione che rendono la fotografia un'esperienza al servizio dell'esplorazione dell'immaginario o dell'inconscio, che permettono di realizzare uno stile che tende all’onirismo, al fine di svelare ciò che è celato dietro le apparenze. Tali sperimentazioni sono strettamente correlate ai temi del surrealismo, che privilegiano in particolare il corpo nudo femminile che, come in pittura, subisce processi di ibridazione, frammentazione, distorsione, deformazione, mimetismo, che lo impregnano di una forte carica erotica e che, soprattutto, generano dei ribaltamenti di senso che mettono in crisi le convenzioni percettive del corpo umano, dando vita all’ ‘informe’.

 

Il concetto di informe viene elaborato dall’altro teorico del Surrealismo, Bataille, il leader dei dissidenti del Movimento in aperta rottura con Breton. Per Bataille, l’informe è, come scrive Krauss, la categoria in grado di decostruire tutte le categorie, di sopprimere le frontiere convenzionali con cui i concetti organizzano la realtà, ordinandola in “pacchetti di senso” confezionati e limitanti. A tal fine, la fotografia non può limitarsi a riprodurre l’oggetto, ma deve spostarne il significato e, quindi, sottoporlo a manipolazione.
“Je ne suis pas un photographe de la nature, moi, mais de ma fantaisie”, afferma Man Ray. E, alla sua modella Kiki de Montparnasse che si rifiuta di posare per lui, in quanto, per la donna, un fotografo non fa che registrare la realtà, egli risponde “Pas moi…je photographiais comme je peignais, transformant le sujet comme le ferait un peintre. Comme lui, j’idéalisais ou déformais mon sujet”. Man Ray, che già aveva aderito a Dada e che elegge il Marchese de Sade a uno dei suoi maggiori ispiratori, racconta il corpo femminile attraverso immagini ironiche e ambigue, fatte di sensualità e provocazione. In Le violon d'Ingres, omaggio alla Bagnante di Valpinçon (1808) del pittore neoclassico, immortala il corpo di Kiki de Montparnasse, musa e modello di artisti, trasformandolo in un violoncello, riprendendo il tema dell’accostamento insolito di oggetti e quello della metamorfosi, così cari ai surrealisti. Il corpo della donna diventa un oggetto, uno strumento da suonare, da toccare e da possedere. L’iconografia dell’odalisca, della schiava vergine rinchiusa nell’harem, d’altra parte, era stato uno dei miti dell’immaginario erotico occidentale nel XIX secolo.


Sulla stampa del provino, Man Ray aggiunge ad inchiostro le due “effe”, cioè le forme delle fessure che caratterizzano la cassa degli strumenti ad arco, creando una commistione tra fotografia e pittura. L’artista gioca con l'espressione popolare "avere un violoncello di Ingres", cioè avere un hobbie (Ingres, infatti, era anche un valido violoncellista), per rivelare la sua passione e il suo passatempo preferito: è il corpo erotico della donna il suo “violon d’Ingres”. L’esplorazione fotografica perde così il suo valore oggettivo tramutandosi in un’ambiguità concettuale che disorienta lo spettatore, ponendolo di fronte a un oggetto che rimanda a se stesso e contemporaneamente ad altro da sé. L’azione metamorfica dell’immagine, data dalla sovrapposizione metaforica di due oggetti così diversi, come un corpo umano e uno strumento musicale, più che essere penalizzata sembra, paradossalmente, amplificata dallo strumento fotografico, proprio a causa del principio di realtà che lo caratterizza e che rinforza, più di quanto fa la pittura, la capacità dell’oggetto fotografato di rinviare all’esistenza propria, ancor prima che alla rappresentazione della sua metamorfosi.

Man Ray, Anatomia, 1930.

Nello scatto “Anatomia” (1930) è ripresa una testa femminile mentre si protende all’indietro; nell’immagine vediamo solo il collo e il mento, resi gelatinosi dall’illuminazione tanto da sembrare il ventre e la testa di un rettile o di una rana (cfr. il capitolo “Corpus delicti”, contenuto in Teoria e storia della fotografia”, di R. Krauss). L’inquadratura insolita e stretta sul dettaglio e l’illuminazione dall’effetto conturbante provocano il disorientamento della percezione nel riconoscere il contenuto rappresentato, così come avveniva nella fotografia “Testa, New York”, scattata da Man Ray nel 1923, in cui la testa di un uomo, con in bocca una sigaretta, è voltata di 180 gradi, tanto da risultare impossibile riconoscere nell’immagine il volto di un essere umano. Krauss afferma che queste strategie dell’artista (distanza ravvicinata che isola un dettaglio, illuminazione, rotazione) “decostruiscono l’aspetto familiare del corpo umano”, dando vita all’informe.

Man Ray, Testa, New York, 1923.

Un discorso analogo può essere intrapreso per una fotografia precedente di Man Ray, “Ritorno alla ragione” (1923), in cui la sezione centrale di un corpo nudo femminile è percorsa da ombre che ricamano la carne, sottoponendola a una sorta di ibridazione, o meglio di mimetizzazione con lo spazio, come sottolinea Elio Grazioli, secondo il quale la fotografia “mostra un corpo ‘posseduto’ dallo spazio, invece che occuparlo, un corpo che cerca quasi di mimetizzarsi attraverso i fenomeni luminosi dello spazio intanto diventato attivo invece che puro contenitore, curvo e mosso, uno spazio ormai ‘relativistico’” (Corpo e figura umana nella fotografia, p. 138).

Man Ray, Il primato della materia sul pensiero, 1929.

La stessa “invasione dello spazio” (Krauss) sul corpo è visibile in un’altra immagine di Man Ray, “Il primato della materia sul pensiero” (1929), in cui un nudo femminile emerge dal buio grazie all’azione modellante della luce. La parte inferiore, tuttavia, grazie a un intervento di solarizzazione (cioè di esposizione della carta fotografica o della pellicola negativa ad una fonte luminosa in fase di sviluppo), ha i contorni alterati. In tal modo, la luce sembra liquefare i confini del corpo, fondendolo con lo spazio circostante, derealizzandolo in quanto ne intacca la materia e la forma riconoscibile.

Man Ray, Ritorno alla ragione, 1923.

In tutte queste immagini, come si può osservare, il viso è escluso dal taglio dell’inquadratura o è in posizione decentrata, come a sottolineare il disinteressamento verso la personalità del soggetto e, soprattutto, la vocazione antiritrattistica della fotografia surrealista, tesa non a riprodurre una realtà già data, ma a crearne di nuove tramite un linguaggio straniante e anticonvenzionale.

Man Ray, Noir et blanche, 1926.

La fotografia “Noire et blanche”, del 1926, tratta invece il tema della maschera, riproponendo un’altra modalità di isolamento di un dettaglio del corpo umano, che in questo caso è la testa della donna (ancora la modella Kiki). Gli occhi chiusi e la posizione orizzontale del viso chiarissimo, il suo accostamento alla maschera africana in legno d’ebano e tenuta in senso verticale, concorrono a produrre un gioco d’equilibrio di contrasti cromatici e formali. La messa in scena realizza una doppia interruzione: la separazione della testa dal corpo - il volto diventa scultura – e la sostituzione della testa con la maschera Baoulé. La donna è diventata un essere ibrido, formato da un oggetto e un essere vivente, ma che fonde insieme anche culture lontane e profondamente diverse tra loro. Le maschere Baoulé sono usate nelle cerimonie funebri e rappresentano il legame con le divinità e gli spiriti degli antenati. Gli sciamani che indossano le maschere rituali sono immersi in un sonno ipnotico per connettersi con gli spiriti; la donna, che ha gli occhi chiusi, potrebbe quindi essere immersa anche lei in una sorta di trance e avere accesso a un'altra realtà.

Man Ray, Erotique voilée, 1933.

Nel 1933, Man Ray realizza una serie fotografica usando come modella l'artista Meret Oppenheim. Si tratta della celebre Erotique Voilée, la cui immagine più nota mostra la Oppenheim nuda, come prigioniera dietro una pressa tipografica, il braccio sinistro, coperto di inchiostro, tenuto sulla fronte. I suoi occhi sono abbassati, parte del viso è in ombra, la regione pubica è oscurata da un manico di legno palesemente fallico che sporge dalla ruota della pressa. Il corpo sembra sottoposto ancora una volta a un processo di proiezione delle fantasie maschili e di ibridazione. Appare, infatti, come un miscuglio di donna, uomo, macchina. Il braccio e la mano neri di inchiostro sembrano fatti della stessa materia metallica della grande ruota.

Man Ray, A l'Heure de l'observatoire: Les amoureux, 1936.

Le fotografie di Man Ray destrutturano il corpo nudo femminile, ricreandolo in forme del tutto inedite proprio attraverso la fotografia, privata del vincolo della fedeltà referenziale e usata come strumento per dare libero corso all’immaginazione. Così, il corpo destrutturato e trasformato in feticcio diviene l’emblema della libertà creativa dell’artista.

  
 

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