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domenica 21 luglio 2019

Corpi di regime. La rappresentazione del corpo nell'arte e nella propaganda dei regimi totalitari

Stadio dei Marmi

Come è noto, la filosofa Hannah Arendt, indagando la natura del totalitarismo, accomunava il nazismo e il comunismo sovietico, identificando in esse le sole esperienze storiche e politiche che più si avvicinavano all’ideal-tipo del regime totalitario, la cui peculiarità è quella di essere fondato sul consenso di massa, reso possibile dalla dissoluzione delle classi e dalla disgregazione sociale, dall’uso sistematico del terrore e del controllo capillare della società, dal rapporto tra il capo carismatico e le masse, dall’assenza totale di libertà e dalla distruzione della sfera privata. Tesi alquanto discussa e controversa, ma questo argomento esula dagli scopi di questo articolo, che approfitta di questa premessa semplicemente per affermare che i regimi totalitari del Novecento, a cui aggiungiamo anche il fascismo, un elemento in comune lo ebbero sicuramente, al di là di ogni dubbio: la fondazione dell’arte, del cinema e della letteratura ufficiali su una sorta di realismo classico a base nazionalpopolare, accompagnata alla negazione, spesso violenta, delle esperienze di rinnovamento delle avanguardie dei decenni precedenti, condannate come “arte degenerata”, frutto dell’individualismo decadente borghese, etichettata dai nazisti come “bolscevismo culturale” e “arte giudea”, contraria sia allo spirito del Volk che a quello del proletariato.

Joseph Thorak

Ad essa, venne contrapposto un realismo di tipo classico, inteso come tendenza alla semplificazione dell’immagine e alla forma nitida e immediatamente intelligibile. Solo in questo modo, adottando un linguaggio di facile lettura, l’arte poteva assolvere la sua finalità propagandistica e pedagogica. Goebbels sostenne vigorosamente lo stile realista, perché l’arte doveva agire come uno strumento educativo, con il compito di “modellare, plasmare, eliminare il marcio e spianare la via al sano”. Se per Hitler l’arte aveva il compito di celebrare e immortalare le conquiste della superiore razza ariana, per Stalin il suo fine era quello di propagare il trionfo della rivoluzione proletaria nel mondo.
L’adozione condivisa del linguaggio mimetico, finalizzato alla propaganda di regime, si esplicò in modo straordinario nella rappresentazione del corpo umano. Una rappresentazione che doveva ritrovare i canoni oggettivi della classicità, in contrapposizione alla soggettività individualista e instabile delle avanguardie storiche, le quali erano nate come espressione di una élite, distante dalle masse popolari. Il riaffiorare di modelli antichi, di tipo classico, si presentava, dunque, come un vero e proprio richiamo all’ordine, alla sistematicità e organicità dell’impianto formale, ai valori di simmetria, proporzione, armonia, in particolare nella rappresentazione del corpo.


L’instaurazione di un ordine sociale nuovo doveva fondarsi su un uomo altrettanto nuovo, e come quell’ordine doveva prefigurare una società sana e ben organizzata, così la figura umana non poteva che presentare i caratteri della razionalità e dell’organicità della forma, nell’orizzonte del kalos kai agathos, cioè di un legame indissolubile tra bello e morale, tra valori estetici e valori etici (che nell’antica Grecia era il tratto distintivo del guerriero). L’ideologia della superiorità della razza ariana da una parte e quella dell’aristocrazia della classe operaia dall’altra si incarnava e assumeva forma visiva nell’immagine di un corpo insieme reale e ideale, divenuto stereotipo di bellezza e di forza. Nazismo e fascismo puntarono in particolare sul corpo nudo maschile, ispirato ai modelli greci della bellezza statuaria, quintessenza di virilità e di perfezione, coniugata con un atteggiamento che Winckelmann  aveva definito di “nobile semplicità e quieta grandezza”. Questo concetto di bellezza, già a partire dal Seicento, era stato rivisto dal pensiero estetico, che aveva gradualmente abbandonato l’idea del bello come misura e proporzione, scoprendo una bellezza più complessa, meno razionale e più fantasiosa, fino a giungere a estetizzare l’idea opposta del brutto, del dissonante, del sublime. E, tuttavia, il senso comune non si è mai adeguato alle conquiste del pensiero estetico e dell’arte e, fuori da questi ambiti, infatti, ha continuato ad essere attiva un’idea di bellezza come armonia e piacevole misura, ormai saldata indissolubilmente alla cultura dell’uomo occidentale.

  

Il corpo ariano, per l’ideologia nazionalsocialista discendente da quello greco, era caratterizzato dall’essere biondo, atletico, proporzionato, armonico e slanciato. E, siccome ogni legittimazione necessita di un negativo per il confronto, ad esso veniva contrapposto il corpo incarnazione del male, quello del “brutto ebreo” dalla carnagione bruna, dalla figura sgraziata e disarmonica, dalla statura bassa e dal naso camuso, insomma il perfetto modello anti-classico e, dunque, anti-ariano, a cui venivano altresì associati i neri, gli zingari, gli omosessuali, gli emarginati, tutti caratterizzati da morfologie deformanti. Mentre, dalla parte sovietica, il nemico era visualizzato nel ritratto dell’avido e decadente borghese capitalista, cui era contrapposto quello eroico e virile del glorioso operaio. In entrambi i casi si tratta di un corpo che, benché investito di implicazioni etiche, risultava di fatto ridotto a dato biologico, svuotato della complessa interiorità e delle inquietudini che erano state sviscerate dalle avanguardie.


I pregiudizi razziali e sociali di tipo anatomico, in particolare quello antisemita, tuttavia, non sono un’elaborazione originale del nazismo, ma vengono da lontano, da quelle ricerche mediche, psichiatriche e antropologiche fondate sulla fisiognomica, portate avanti dai vari Bertillon, Galton, Lombroso e altri nella seconda metà dell’Ottocento, le quali avevano determinato, come corollario, la diffusione di una percezione estetica coincidente con una valutazione etica, cioè la percezione della fisicità di una persona come segno della sua moralità e adeguatezza sociale, attingendo, come modello di confronto ideale, a una visione semplificata di normalità del corpo, ridotta a una serie di parametri numerici, accostabili al canone classico.
La convinzione, espressa chiaramente nel Mein Kampf di Hitler, era che «lo spirito sano e forte si trova solo nel corpo sano e forte». Pertanto lo stato si prefiggeva un compito eugenico, cioè quello di preservare la purezza della razza, educando prima di tutto corpi sani e forti, e in secondo luogo favorendo l’istruzione, in quanto «un uomo di minor cultura scientifica ma di corpo sano, di carattere buono e saldo, pieno della gioia di decidere e di forza di volontà, ha per la comunità nazionale maggior pregio di un uomo intellettuale ma debole». Il culto del corpo atletico ed eroico veniva radicato nelle masse popolari attraverso l’imposizione obbligatoria degli esercizi ginnici, dello sport e delle parate di piazza: un corpo disciplinato e racchiuso in ranghi e formazioni, che ribadivano la sua appartenenza non alla sfera privata, ma a quella collettiva.


I vari regimi si occuparono anche di riorganizzare il corpo femminile intorno a precisi modelli culturali. Nell’intento di assicurare agli imperi una nuova stirpe, sana, forte e robusta, l’interesse di nazismo e fascismo si volgeva alla donna in quanto possibile madre e, perciò, principale responsabile del miglioramento della razza. Il governo fascista intervenne in modo deciso nella definizione dei canoni di bellezza muliebre, manipolando la coscienza della fisicità femminile, anche allo scopo di controllare e sopprimere ogni desiderio di emancipazione.
Il corpo femminile doveva esprimere la sua bellezza in base a due funzioni, legate tra di loro: la funzione seduttrice e quella riproduttiva. I canoni della bellezza femminile avevano subito delle forti trasformazioni fin dall’inizio del secolo ad opera della produzione teatrale e cinematografica, della stampa e della moda. Per porre rimedio al danno provocato dalla cultura commerciale, la politica fascista lanciò i propri modelli di bellezza muliebre: la donna italiana avrebbe dovuto essere generosa nelle forme, avere ampi fianchi ed essere forte e robusta, per poter assolvere efficacemente i suoi ruoli di buona moglie e madre. Si lanciò, pertanto, una campagna contro la donna magra, pallida e sterile, ordinando ai giornali di eliminare tutte quelle immagini che mostravano figure femminili magre e mascolinizzate.

  

Se la simbologia del corpo maschile rimandava all’ideale del guerriero, al corpo della donna erano destinati altri compiti rappresentativi. In quanto fonte e custode della purezza della razza, doveva rappresentare la femminilità e la bellezza perfetta. Sebbene nei regimi comunisti le venisse riconosciuto un ruolo nella lotta per l’emancipazione del proletariato, tuttavia, il totalitarismo ha sempre relegato la figura femminile in aree ancillari rispetto alla figura maschile, soprattutto in ambiti tematici specifici e relativi alla rappresentazione di allegorie, dei valori familiari e in scene belliche nelle vesti di madri dolenti.
Alla diffusione dell’immagine del “bello ariano” contribuirono vari artisti, pittori e scultori, come Hermann Hendrich, Fidus, Alfred Thiele, Arno Breker, Joseph Thorak, che attingevano i loro soggetti al repertorio mitologico classico, producendo gigantesche statue di nudi virili, o alla tradizione bucolica. Si notino, in particolare, le produzioni plastiche di Thorak (a questo link, una galleria: http://galleria.thule-italia.com/josef-thorak/#!prettyPhoto), caratterizzate da gigantismo e spesso da una tendenza alla semplificazione geometrica del corpo e soprattutto del volto, che spersonalizza del tutto la rappresentazione del soggetto. Nell’Italia fascista spuntano numerose sculture di uomini nudi in pose ginniche, e l’atletica diventa il luogo simbolico dell’affermazione del fascismo sul piano internazionale.

qui un video sulle statue dello Stadio dei marmi, Foro Italico:


Come simbolo della rappresentazione sovietica del corpo, invece, è d’obbligo indicare il gruppo scultoreo “L'operaio e la kolchoziana”, alto 24,5 metri, realizzato in acciaio inossidabile da Vera Muchina per l'Expo 1937 tenutasi a Parigi, e successivamente trasferito a Mosca, autentico esempio di realismo socialista. L'operaio tiene in alto un martello e la kolchoziana, ovvero la contadina del kolchoz, una falce, ricreando il simbolo del comunismo.

Vera Muchina, L'operaio e la kolchoziana.

Chi riesce a utilizzare in modo mirabile le potenzialità espressive dell’arte plastica della Grecia Antica è la regista tedesca Leni Riefenstahl , in particolare nei suoi due documentari più famosi, “Trionfo della volontà” (Triumph des Willens, 1935) e “Olympia” (Olympia 1. teil Fest der Völker, 2. teil Fest der Schönheit, 1938).



Si tratta di due straordinarie opere di propaganda politica, la seconda delle quali dedicata alle Olimpiadi di Berlino del 1936, la quale si appropria delle forme classiche, piegandole ai propri scopi comunicativi di esaltazione della grandiosità e della potenza del popolo tedesco e per trasmettere il messaggio della discendenza diretta della civiltà ariana da quella dell’antica Grecia, culla della civiltà (si veda al minuto sette come la statua del Discobolo di Mirone si trasformi, per dissolvenza, nel corpo di un atleta in carne e ossa. La statua è diventata corpo umano conducendo il passato verso il presente). Interessante è anche il “Trionfo della volontà”, dedicato al sesto Congresso del partito nazionalsocialista (1934), in cui predominano le geometrie ordinate degli spazi in cui sono collocati i militanti, in una dialettica tra singolo e massa in cui l’individuo viene del tutto assorbito, spesso annientato.

Arno Breker

Joseph Thorak, Francesca da Rimini




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