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lunedì 27 maggio 2019

La solitudine del manichino. La figura oltre-umana nella pittura metafisica

Giorgio de Chirico Ettore e Andromaca, 1917.

Le figure che abitano i quadri della pittura metafisica sono enigmatiche; la loro natura è sempre sospesa tra il tempo e il fuori dal tempo, tra l’essere e il non essere. Si riconoscono come personaggi della storia umana e, tuttavia, sono fatte di materia inerte e prive di fisionomia. Né vive né morte. Sono fredde statue o rigidi manichini senza volto, immersi in uno spazio immaginario senza tempo.
“Quale sarà il fine della pittura del futuro? – scrive De Chirico nel manoscritto Paulhan – […] Spogliare l’arte di ogni residuo di routine, di regola, di tendenza a un soggetto, a una sintesi estetica; sopprimere completamente l’uomo come punto di riferimento, come mezzo per esprimere un simbolo, una sensazione o un pensiero: liberarsi una buona volta di tutto ciò che continua a frenare la scultura: l’antropomorfismo. Vedere tutto, anche l’uomo, come cosa. È il metodo nietzschiano. Applicato in pittura, potrebbe dare risultati straordinari.”

Sembra questo il destino ineluttabile del soggetto umano agli inizi del Novecento, di colui che è stato il protagonista assoluto dell'arte classica e di quella moderna. Anche le altre avanguardie lo hanno messo radicalmente in discussione: il cubismo lo ha scomposto, l'astrattismo lo ha smaterializzato, il suprematismo lo ha nullificato. Nella metafisica di de Chirico il soggetto ritorna, ma come personaggio muto, spaesato e sovrastato dalle imponenti architetture, o come ombra senza corpo, o come manichino. Proprio la figura del manichino rappresenta, nella pittura metafisica, il superamento del Soggetto moderno quale era venuto definendosi dal Rinascimento, protagonista di una metamorfosi che avviene sotto la luce della filosofia di Nietzsche e Schopenhauer.

Giorgio de Chirico, L'enigma di un pomeriggio d'autunno, 1910.

Giorgio de Chirico, L'enigma dell'oracolo, 1910

Nel 1914, il fratello Alberto Savinio pubblica a Parigi il poemetto Le chants de la mi-mort dove descrive un “homme sans voix, sans yeux et sans visage, fait de douleur, fait de passion, fait de joie”. Nello stesso anno tra i soggetti delle opere di Giorgio de Chirico inizia a comparire il manichino, che si mostra come un uomo ridotto all’essenziale, privato di ogni connotazione estetica personale. Il primo dipinto in cui ciò accade è “La nostalgia del poeta” che, in primo piano, disposto di profilo, presenta un busto classicheggiante con occhiali da sole e, sullo sfondo, una sorta di pilastro; a destra, in secondo piano, si intravede un manichino sartoriale, limitato alla sola sagoma.

         

In un’altra opera dello stesso anno, “Viaggio senza fine”, sul volto del manichino compare un occhio centrale, una delle prime manifestazioni di questo tema, che caratterizzerà il periodo ferrarese. Qui il manichino sembra emergere dall’interno della Kore capitolina, a cui è caduto il volto, che ora giace ai piedi della statua. E’ qui evidente come la matrice della figura del manichino, tipica della pittura metafisica, sia la statua antica, da cui il manichino sembra emergere fuori per sottrazione degli strati esterni e che man mano verrà contaminato da elementi nuovi come squadre e righelli, simboli dello “spirito geometrico” della modernità. Il manichino, come scrive Gioia Mori, «nasce dalle figure ammantate dei primi “enigmi”», da quella di Ulisse, malinconico e solitario sul bordo del vuoto, in “L’enigma dell’oracolo”, dalla statua acefala dell’ “Enigma di un pomeriggio d’autunno”, entrambe del 1910. Lentamente la figura si spoglia del chitone greco, indossato in “Viaggio senza fine”, e rivela membra levigate e teste senza volto. Il manichino emerge dalla statua come un’entità nuova, che al posto dei lineamenti reca impressi dei segni misteriosi.

Giorgio de Chirico, Il Duo, 1914-15, New York, The Museum of Modern Art.

Sempre a Parigi, de Chirico dipinge il quadro “Il Duo” in cui, oltre a due manichini, che ormai hanno acquistato molte delle fattezze di quelli che compariranno d’ora in poi in molte opere dell’artista, troviamo anche il pavimento formato da assi di legno che ritornerà in molti altri capolavori futuri. Nei due soggetti, che sembrano avere due età differenti, de Chirico vuole rappresentare suo fratello minore Alberto Savinio e se stesso, che è il manichino con il cuore disegnato sul petto.

Il vaticinatore (1915)

Del 1915 è “Il Vaticinatore”, dove il grande manichino, seduto di fronte a una lavagna e assorto in un’atmosfera sospesa, ha sul volto un simbolo come un grande occhio. Dopotutto il vate della tradizione, come Omero, Tiresia, Edipo, ha l’attributo della cecità perché vede con l’occhio interiore “e la parola dell’oracolo non ha bisogno della bocca, perché fabulatoria, “sibillina”, lacerata, frammentaria” (G. Mori, De Chirico). In quest’opera ritroviamo molti dei temi trattati dall’artista in quegli anni – la piazza, le architetture emblematiche, il pavimento ligneo, l’ombra della statua, le prospettive incongruenti che disegnano uno spazio plausibile ma contraddittorio e inaccessibile. Ma, soprattutto, in questa figura di manichino si condensa il tema stesso dell’enigma che de Chirico aveva declinato fino ad allora.

Il filosofo e il poeta, 1915.

Dello stesso anno è un’opera molto simile, “Il filosofo e il poeta”. Nella stanza spoglia, un manichino di colore scuro e parzialmente in ombra, seduto di spalle su un piedistallo in atteggiamento di profonda meditazione, contempla anche qui una lavagna, la quale sembra raffigurare un cielo stellato. Egli non guarda il cielo fuori dalla finestra, ma la superficie di un quadro. L'atmosfera è immobile, di malinconica e silenziosa attesa, come se si attendesse la rivelazione di un mistero profondo, la soluzione di un enigma.
Per capire questo dipinto, il cui tema si ripete in molte altre opere del pittore, è illuminante questo passo di G. C. Argan e che sintetizza l’arte metafisica: "L’arte è pura metafisica, non ha legami con la realtà naturale o storica che sia, neppure per trascenderla. Non ha fini conoscitivi né pratici, non ha funzione. […] Per De Chirico l’arte non rappresenta né interpreta né muta la realtà: si pone come un’altra realtà, metafisica e metastorica. È pura speculazione, e il suo contatto col mondo è puramente occasionale".
Per De Chirico, l'arte è stata liberata dai filosofi e dai poeti, che per primi hanno rivelato il non senso della realtà delle cose. Per questo il filosofo-poeta non guarda verso il mondo oltre la finestra, perché ha capito che quel mondo è solo apparenza. Il filosofo-poeta cerca una realtà nuova, misteriosa, enigmatica, nascosta dietro le apparenze del contingente. Così il manichino di De Chirico semplicemente non guarda il cielo, ma indirizza la sua meditazione sulla superficie di un quadro; con la sua immobilità sembra condensare tutto il peso di una rivelazione imprigionata.
Nell’Agosto del 1917 a Ferrara, dove trascorre il periodo della guerra come soldato semplice, de Chirico inizia la serie dei grandi manichini: Ettore e Andromaca, Il Trovatore e Il grande metafisico. Colti in atteggiamenti più intimi, questi manichini appaiono umanizzati in confronto a quelli degli anni precedenti, divenendo emblemi di una solitudine eroica e di una malinconia universale.
I manichini raggiungono ora la forma definitiva e risultano assemblaggi di forme solide e levigate, a cui si sovrappongono elementi geometrici (squadre e righe). Nella loro sagoma, negli ovali della testa, degli arti e del dorso, possiamo ritrovare i rudimenti di base del disegno accademico del corpo umano, quando si tracciano le anonime forme che faranno da guida, prima di aggiungere qualsivoglia caratterizzazione individuale. Il manichino sarebbe dunque la materializzazione di uno schizzo, la figura umana ridotta alla sua forma rudimentale, alla sua essenza, spogliata dell’identità dell’Io.
Come su un palcoscenico ligneo, dalla prospettiva incoerente e delimitato dalle quinte di architetture instabili, che creano un’atmosfera sospesa e surreale, le solitarie figure di Ettore e Andromaca consumano il loro addio, bloccati nell’infelicità di un abbraccio impossibile per la mancanza degli arti superiori.
Il manichino è il soggetto che ha deposto la maschera statuaria della bellezza classica e che rivela il nucleo “metafisico” del volto anonimo che si è liberato della propria individualità. La sagoma è diventata un ingranaggio di ovali, di squadre, di assicelle, che mette insieme la geometria e la meccanica del tempo presente, divenuta parte integrante del corpo umano e, tuttavia, riesce ancora ad esprimere la sofferenza delle passioni e la malinconia del distacco. Anche qui de Chirico rivela la sua adesione alla filosofia nietzscheana, tanto nella rappresentazione della tragedia della serenità del mondo greco, quanto nella volontà di cogliere l’oltrepassamento della dimensione umana-troppo umana.

Giorgio de Chirico, Il Trovatore, autunno 1917, Collezione privata

Il Trovatore ricorda invece un San Sebastiano legato alla colonna, trafitto da una squadra di legno in pieno petto. Come gli altri quadri metafisici dell’artista, quest’opera immerge lo spettatore in uno strano mondo onirico, creato da una luce autunnale, ombre allungate e prospettive incongruenti. Il manichino si erge, monumentale e desolato, formato da un assemblaggio di pezzi di legno. La scena è al tempo stesso epica, inquietante e misteriosa. Le allusioni alla pittura del Rinascimento sono chiare. In termini di costruzione pittorica, Il Trovatore è una rielaborazione del Martirio di San Sebastiano di Antonello da Messina e Andrea Mantegna, ma l’opera, con le sue ombre e le sue simbologie, racchiude un enigma impenetrabile, dato soprattutto dalla sensazione di “perturbante estraneità” prodotta dalla presenza di un manichino immerso in un paesaggio estraneo alla sua funzione.
La Pittura Metafisica oltrepassa la rappresentazione tradizionale in un modo peculiare, diverso da quello delle altre avanguardie. Questo nuovo tipo di pittura è un’esperienza di straniamento lontana dalle rivoluzioni stilistiche e di metodo del Cubismo, del Futurismo, dell’Astrattismo e degli altri movimenti di inizio Novecento, impegnate quasi esclusivamente in una riflessione sul linguaggio e nel processo di disfacimento della forma. La Metafisica, al contrario, non deforma gli oggetti, ma li sottopone a "spaesamento", collocandoli in spazi inusuali e accostandoli con dei criteri che esulano dalla nostra esperienza quotidiana (caratteristica che ritroveremo nel Surrealismo), tagliando ogni legame tra realtà e rappresentazione. “È un accostamento fortuito, frutto di una visione, di un lampo fugace, di una estasi metafisica che illumina una certa realtà intravista dall’artista, e che viene subito tradotta in immagine, ma che non è né nell’immagine stessa né in un’altra realtà che sta dietro l’immagine” (R. Dottori, “Giorgio de Chirico. Immagini metafisiche). Proprio questa illogica combinazione degli oggetti comuni è in grado di rivelare un nuovo aspetto della realtà che ci sorprende, perché quegli accostamenti innaturali trasformano le cose quotidiane in presenze inquietanti e silenziose, le “trasmutano” in enigmi, facendo scaturire quello scarto che conduce in una nuova dimensione del reale densa di mistero.
L’aspetto metafisico delle cose non nasce da una situazione straordinaria ma, al contrario, essa è contenuta in oggetti e circostanze del tutto ordinarie, collocate però in contesti inusuali. Avviene così la trasformazione di ciò che è noto e familiare in estraneo e inquietante, cioè in perturbante, concetto che Freud descriverà nel suo saggio Das Unheimliche (1919). La nozione di perturbante sembra bene adattarsi alla pittura metafisica, che si caratterizza per la chiarezza compositiva, che raffigura oggetti e forme riconoscibili collocati in spazi architettonicamente definiti seppure inabitabili, ma la cui presenza in quei luoghi risulta del tutto inspiegabile ed enigmatica. In tali spazi vuoti e silenziosi è del tutto assente la figura umana. In essi sono collocati statue e sculture classiche, manichini, squadre, compassi, metronomi, guanti, giocattoli, biscotti. Gli oggetti sono realisticamente raffigurati, ma apparentemente assurdo, senza nessi, risulta il loro accostamento. La loro presenza invera l’ossimoro che assegna veridicità a ciò che è inverosimile.

Giorgio De Chirico - Il grande metafisico, autunno 1917, Collezione privata.

Il manichino de Il grande metafisico, che si erge imponente al centro di una piazza vuota (rimando alla Piazza di Ferrara), come racconta lo stesso artista, rappresenta l’Ariosto. E’ formato da un agglomerato di oggetti, simile a un totem simbolico, che nell’estremità superiore termina con la testa e il mezzo busto di un manichino. A differenza di quelli precedenti, questo manichino conserva poco di antropomorfo, dato che il corpo è scomparso per fare posto ad oggetti di vario tipo, parallelepipedi e squadre, che rappresentano tutte le costruzioni metafisiche del passato, al culmine delle quali è posto il nuovo Soggetto, l’oltre-uomo, cioè colui che ha oltrepassato la metafisica tradizionale.
L’istanza iniziale di de Chirico, lettore della filosofia di Nietzsche e del suo pensiero sull’oltre-uomo (Ubermensch), era quella di oltrepassare l’idea del soggetto umano nel senso classico del termine, cioè di quel soggetto che è stato l’istanza fondamentale di tutto il pensiero filosofico-metafisico, ma anche di ogni produzione artistica, e di ogni visione poetica del mondo. Il manichino è proprio questo oltre-uomo che si è liberato da ogni accidentalità e che vive al di fuori dello spazio e del tempo, cioè al di fuori della storia. Proprio questo sembra essere il tema di uno dei dipinti più celebri ed enigmatici di de Chirico, Le muse inquietanti.

Giorgio de Chirico, Le muse inquietanti (1917-1918).

In una piazza vuota che è ancora quella di Ferrara, con il castello degli Estensi e le ciminiere inattive di una fabbrica sullo sfondo, con il pavimento di legno che la fa assomigliare da un lato a un palcoscenico e dall’altro al ponte di una nave, nella luce calda e tagliente del crepuscolo, troviamo tre figure, tre ibridi di statua e manichino. Dei due in primo piano, quello a sinistra, di spalle e con la testa reclinata, è l’ibrido più strano: la parte inferiore ricorda il fusto di una colonna ionica, il busto è quello di una statua classica e l’enorme testa è quella ovoidale del manichino, segnata da due linee tratteggiate e da due croci. L’altra musa è seduta su di una cassa blu; il suo corpo è di materia ambigua, tra la statua di marmo e il fantoccio di pezza con le cuciture, ed è privo della testa, che è stata svitata e giace ai suoi piedi, come una maschera che ricorda quelle africane. Il terzo personaggio, in secondo piano e immerso interamente nell’ombra, ha il corpo di statua e la testa di manichino.
Ogni soggetto è isolato in sé. La piazza, luogo d’incontro per sua natura, viene svuotata di ogni sua funzione e si tramuta nel luogo impraticabile dell’attesa solitaria di una qualche rivelazione in grado di sciogliere l’enigma. Lo spazio dalle geometrie rigorose ma inabitabile, la prospettiva deformata costruita su diversi punti di vista, i colori piatti, le ombre lunghe, gli oggetti quotidiani lasciati sul pavimento, le ciminiere spente e il castello dalle finestre buie determinano un disorientamento percettivo. I motivi tratti dalla realtà quotidiana sono riuniti insieme senza un motivo giustificabile sul piano razionale. Questo luogo sospeso, svincolato dal tempo e dallo spazio, dove tutto è immobile, non può essere abitato da esseri umani, ma solo da manichini senza volto, cioè da enigmi, perché solo gli enigmi possono trovar posto in uno spazio enigmatico. La presenza di figure autenticamente umane, con la loro individualità e psicologia, avrebbe impedito al quadro di attingere la dimensione dell'assoluto, oltre la storia. Il manichino, invece, è un’entità fuori dal tempo e, in quanto tale, può sostare sull’abisso del mistero impenetrabile dell’esistenza.
“Il manichino è un oggetto che possiede a un dipresso l’aspetto dell’uomo, ma senza il lato movimento e vita; il manichino è profondamente non vivo e questa sua mancanza di vita ce lo rende odioso”, scrive De Chirico e prosegue: “Il suo aspetto umano e al tempo stesso mostruoso, ci fa paura e ci irrita... il manichino non è una finzione, è una realtà, anzi una realtà triste e mostruosa. Noi spariremo, ma il manichino resta”. Resta, perché, a differenza dell’essere umano, non soggiace alle leggi del divenire, della vita e della morte, ma resta lì, immutabile, come la Musa silenziosa, nel suo eterno dialogo con il mistero.

Carlo Carrà, “La musa metafisica”, 1917, Coll. privata (Milano)

Carlo Carrà, Solitudine, 1917 Olio su tela, Collezione privata


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