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lunedì 14 gennaio 2019

L’Autoportrait en noyé. La prima fiction fotografica.

Hippolyte Bayard, Autoportrait en noyé, 18 ottobre 1840.


Quello di Hippolyte Bayard non è il primo autoritratto della storia (sembra che questo primato appartenga all’americano Robert Cornelius), ma la fotografia Autoportrait en noyé (di cui esistono più varianti) è celebre per altre caratteristiche, che ne fanno comunque un oggetto pionieristico. Utilizzando la poco elegante terminologia dei nostri giorni, possiamo affermare che questa immagine costituisce la prima bufala fotografica della storia. Ma, forse è più corretto affermare che si tratta della prima finzione fotografica o, per dirla in altri termini, del primo esempio di staged photography. Questa tecnica di produzione di immagini di recente invenzione - che di lì a qualche anno Baudelaire sottoporrà a condanna feroce in quanto mera riproduzione meccanica della realtà, lontana dalle forme artistiche più autentiche, come la pittura e la rappresentazione teatrale - viene in tal caso indirizzata verso uno scopo comunicativo e manipolativo attraverso una vera e propria messa in scena, contraddicendo la supposta netta distinzione tra realtà e finzione proprio attraverso un mezzo ritenuto connesso indissolubilmente alla riproduzione del reale e del vero.

La fotografia di Bayard, grande sperimentatore e autentico genio inventivo, costituisce probabilmente anche il primo nudo maschile nella storia del nuovo medium, il primo scherzo fotografico, il primo utilizzo di una fotografia come protesta.
L’immagine mostra un uomo seminudo, pallido, rigido e con gli occhi chiusi, e viene presentata come il ritratto di un annegato suicida. La stampa originale reca sul retro la seguente iscrizione in francese:
“Il cadavere dell’uomo che vedete nell’immagine sull’altro lato è quello del signor Bayard, inventore del procedimento di cui avete appena visto, o state per vedere, il glorioso risultato…”
In realtà, al momento dello scatto, Bayard è vivo e vegeto. L’autore, spinto dal risentimento per il mancato riconoscimento del ruolo da lui ricoperto nell’invenzione fotografica, decide di suicidarsi… fotograficamente. Mette così in scena la propria morte per annegamento e lo fa con alquanta ironia, evidente anche nella firma del testo sul retro, che riporta le iniziali ‘H.B.’
Bayard era stato l’inventore di un procedimento fotografico noto come stampa positiva diretta. La definizione dell'immagine era forse meno precisa del dagherrotipo, ma consentiva una stampa positiva direttamente su carta, e non su lastra di metallo. L’inventore si sentiva defraudato dallo Stato francese, in quanto aveva favorito e riconosciuto le ricerche di Daguerre, ignorando il suo lavoro.

Hippolyte Bayard realizza la prima finzione fotografica. L’immagine richiama una certa iconografia pittorica di soggetti senza vita, in particolare per la postura abbandonata del corpo e l’uso del lenzuolo bianco. La fotografia si dimostra così uno strumento capace non solo di registrare semplicemente la realtà, ma di produrla, di essere un momento di creatività e di immaginazione. La fotografia è nata da poco e già esplora le sue potenzialità, le sue capacità di produrre finzione, teatralità e messa in scena, che minano alla base la credenza nella verità incontestabile e nella trasparenza dell’immagine fotografica. La sua relazione con la verità non costituisce una base sufficientemente solida per giustificare le paure di Baudelaire, che fin dall’inizio imputa alla fotografia il suo essere una pura riproduzione automatica.
Ma, attenzione, la fotografia di Bayard mostra una scena che, di fatto, “è stata” (per usare l’espressione di Barthes), cioè ha veramente avuto luogo davanti all’obiettivo. E tuttavia l’immagine mente; quello che mostra non è la verità.
In cosa consiste, allora, la falsità, o meglio la finzione, di questa fotografia?
Ciò che è finto è l'evento figurativo raccontato dal testo, non la raffigurazione in quanto tale. L’immagine, in sé, non è né vera né falsa, in quanto non è in grado di trasmettere da sola il messaggio che il suo autore vuole dare; rimanendo aperta a molte interpretazioni, ha necessità di ricorrere ad un ancoraggio testuale. E, in questo caso, quell’ancoraggio determina la sostanza della messa in scena. La finzione comincia con le prime parole del testo presente sul retro, “le cadavre”. E’ questo termine che inizia un racconto, al quale la fotografia deve apportare la propria evidenza iconica. E, alla fine del testo, l’autore, sebbene con evidente ironia, chiama ancora in causa l’immagine a testimone di quanto contenuto nel messaggio scritto:
“Signore e signori, passiamo a un altro argomento per evitare di recare offesa ai vostri organi olfattivi, in quanto, come voi stessi avrete avuto modo di notare, il volto e le mani del gentiluomo hanno già iniziato a decomporsi” (in realtà erano solo abbronzate e, pertanto, più scure del resto del corpo).
Già all’alba dell’era fotografica, questa immagine mina radicalmente alla base il mito della trasparenza e della verità automatica e inoppugnabile della fotografia, in quanto fedele e meccanica riproduzione della realtà. Ma fa di più. Il vero Bayard in carne e ossa, come si diceva, è colui che è assente dalla scena, colui che ci presenta la foto, non il corpo che vediamo nell’immagine. E la sua presenza si definisce come quella di un autentico soggetto creativo, non di un semplice operatore che aziona una macchina. Proprio come la fotografia si mostra quale strumento non solo per riprodurre l’immagine del mondo, ma per articolare idee, immaginazione, finzione, creatività. O, piuttosto, per utilizzare l’immagine del mondo per elaborare idee e immaginazione.
Questa immagine, oltre tutto, ha anche una certa valenza metafotografica ed autoreferenziale. Il contenuto di questa fotografia, la riflessione che genera sulla morte e sulla sua messa in scena, infatti, è anche una riflessione sulla rappresentazione medesima. L’immagine rivela il processo fotografico. L’immobilità del soggetto che vediamo, la sua presunta morte, il suo “congelamento”, infatti, è sia una caratteristica del personaggio rappresentato che della stessa rappresentazione fotografica, che immobilizza e ‘congela’ ciò che riprende, fissandolo per sempre come soggetto senza vita (E. Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, p. 12).

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