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martedì 18 dicembre 2018

Fruizione di un’opera d’arte come gioco di far finta

Georges Seurat, Un dimanche après-midi à l'Île de la Grande Jatte, 1883-85, Art Institute of Chicago, Chicago.

Cosa hanno in comune lo spettatore di un’opera d’arte e un bambino che gioca con una bambola o un camion dei pompieri? Secondo Kendall L. Walton, autore di “Mimesis as Make-Believe” (Mimesi come far finta, 1990) hanno molto in comune, in quanto entrambi sono impegnati in un gioco di ‘far finta’. Per questo autore, fruire un'opera d'arte equivale a partecipare a un gioco, a utilizzare l'immaginazione per dar vita a un mondo finzionale.

Lo scopo che si prefigge Walton è quello di capire cosa siano le opere rappresentazionali (i dipinti come i romanzi, i film come le opere teatrali), e di fornirne una teoria generale. Egli è convinto di poterle indagare in maniera unitaria, perché tutte le rappresentazioni sono mimesi, cioè finzioni. La sua teoria di mimesi, si badi bene, è molto diversa da quelle precedenti, in cui ‘mimesi’ equivaleva a ‘imitazione, somiglianza’, e in cui veniva coinvolta soprattutto la questione ontologica e semantica dell’opera d’arte. Walton, invece, pone la sua teoria su una base essenzialmente pragmatica: il ‘far finta’ è un’attività immaginativa che riguarda il soggetto coinvolto nella finzione; e non riguarda solo l’esperienza estetica, ma costituisce un aspetto saliente dell’attività umana nel suo complesso.

L’attività del far finta è un esercizio di immaginazione che emerge fin dall’infanzia e permane nell’età adulta, nella quale si evolve in forme sempre più complesse e raffinate. Si tratta, ritiene l’autore, di un esercizio straordinariamente importante, che risponde al bisogno profondo, tipico dell’uomo, di adattarsi all’ambiente circostante e comprenderlo. A questo proposito, Walton fa un esempio molto significativo e toccante:

“I bambini nel campo di concentramento di Auschwitz facevano un gioco chiamato “andare alla camera a gas.” Alcuni possono essere orripilati al pensiero di trattare una questione così tragica con tale leggerezza. Ma questo “gioco” va probabilmente considerato come un onesto tentativo da parte dei partecipanti di comprendere e di cimentarsi con la loro terribile situazione. Sospetto che “giocandolo” essi affrontavano la realtà del genocidio con la massima serietà.”

I giochi infantili sono le prime manifestazioni del far finta; è dunque a partire da essi che andranno intese le opere rappresentazionali e le attività ad esse congiunte. “Per comprendere dipinti, opere teatrali, film, e romanzi, dobbiamo dapprima rivolgerci a bambole, cavallucci di legno, camion giocattolo e orsacchiotti”.
Walton prosegue quindi definendo le rappresentazioni come dei «supporti in giochi di far finta», giochi che ci permettono di godere di esperienze e situazioni che il mondo attorno a noi non sembra proporci, ma che sono possibili in questi “mondi fittizi” creati dalla nostra immaginazione, attivata dalle rappresentazioni:

La Grand Jatte, il David di Michelangelo, I viaggi di Gulliver, Macbeth, e le opere rappresentazionali in generale, sono supporti in giochi di far finta. Altrettanto sono bambole, camion giocattolo, i tronchi nel gioco di Eric e Gregory, e anche formazioni nuvolose e costellazioni celesti quando vi “vediamo” volti o animali, se le interpretiamo prescrivere le immaginazioni che sollecitano. E' bene che le differenze tra questi diversi supporti siano viste sullo sfondo di ciò che li accomuna, ossia il fatto che tutti prescrivono immaginazioni, che generano verità fittizie.”

La Grande Jatte e le altre opere d'arte rappresentazionali […] sono fatte specificamente per lo scopo di essere usate come supporti in certi tipi di giochi, un numero indefinito di giochi giocati da fruitori diversi in occasioni diverse."

E tuttavia c’è una grande diversità tra i giochi infantili e ciò che avviene di fronte alle opere d’arte, perché diversa è la funzione che queste due separate tipologie di supporti hanno. La funzione di un dipinto, infatti, è ben più strutturata di quella di un giocattolo, in quanto il mondo di un dipinto prescrive delle regole più rigide di quelle imposte da un gioco per bambini.
La rappresentazione, dunque, è un supporto atto a originare delle verità fittizie ma non arbitrarie, cioè delle proposizioni che sono vere all’interno del ‘mondo dell’opera’, cioè del mondo finzionale originato da quella rappresentazione. A questo punto, però, occorre distinguere tra il mondo fittizio che è proprio dell’opera e il mondo del gioco generato da ogni fruitore di quell’opera. Questi due mondi non si sovrappongono mai completamente anche se possono avere in comune alcune verità fittizie.
Se uno spettatore contempla La Grande Jatte, egli genera il mondo del suo gioco, che non va però confuso con il mondo de La Grande Jatte medesimo. I mondi dei giochi praticati dai fruitori delle opere rappresentazionali restano distinti dai mondi delle opere, benché possano condividere molte verità fittizie.

Restando all’esempio del quadro di Seurat, fanno parte del mondo fittizio dell’opera le proposizioni secondo cui, ad esempio, c’è una coppia che sta passeggiando nel parco o ci sono delle barche a vela nel lago, e così via. La proposizione per cui ci sono degli ippopotami che stanno sguazzando nel fango, invece, non fa parte del mondo fittizio de “La Grande Jatte”; si tratterebbe di un gioco “inappropriato, non autorizzato" per quel dipinto; giocarlo significherebbe fare un uso distorto dell'opera.
Le proposizioni fittizie nel mondo di un gioco devono essere immaginate dai partecipanti al gioco in rispetto della natura e delle regole che appartengono al supporto, cioè alla rappresentazione. I giochi che noi intratteniamo con l'opera, tuttavia, hanno una caratteristica molto particolare: generano mondi di finzione che per quanto si possano sovrapporre a quello proprio dell'opera, differiscono sempre almeno in qualcosa: nel mondo fittizio generato dall'opera io, fruitore, non ci sono. Il mondo dell'opera è indipendente dai giochi che facciamo con esso. Secondo Walton, quindi, quando ci poniamo come fruitori di un'opera artistica rappresentazionale noi generiamo un mondo fittizio con le proposizioni fittizie che il supporto rappresentazionale ci propone. Questo mondo, seppur deve la sua esistenza al mondo dell'opera, è però indipendente da essa. C'è un mondo dell'opera che noi non potremo mai cogliere così com'è perché sempre e comunque nel nostro coglierlo ci siamo noi come fruitori che ci interfacciamo con quel mondo, e quel “noi” è un elemento non presente nel mondo dell'opera.

Perché dipingiamo e guardiamo quadri? Perché raccontiamo, ascoltiamo e leggiamo, storie? Perché guardiamo un film? Perché partecipiamo alle rappresentazioni?
Fruire rappresentazioni significa partecipare a un gioco di far finta in cui si ha accesso a mondi di finzione e dunque ad esperienze ed emozioni che il mondo reale non ci offre. Le emozioni che si provano verso i personaggi e gli eventi fittizi non sono, però, per Walton, genuine. Tutte le emozioni, per essere autentiche, devono poggiare sulla «consapevolezza dell’esistenza dei loro oggetti». Le emozioni sentite per i personaggi fittizi sono solo simili a quelle rivolte a persone reali: «non ci affliggiamo per Anna Karenina, non proviamo avversione per Jago». Sulla scorta di una simile lettura delle emozioni, Walton reinterpreta anche la teoria aristotelica della catarsi tragica: «le tragedie non suscitano negli spettatori dolore e terrore effettivi, ma fittizi».
L’attrattiva principale del far finta è il «procurare l’esperienza […] senza nessun costo. […] Il divergere di finzionalità e verità ci risparmia la sofferenza e il dolore che sarebbero da aspettarsi nel mondo reale», scrive Walton. Tutte le attività immaginative in generale offrono riparo dalla fatica dell’esperienza reale, ma solo le rappresentazioni finzionali, rese possibili da supporti oggettuali, offrono sia l’esperienza di una sospensione dalla realtà, il piacere della libertà dai vincoli e dal negativo del reale sia, al contempo, una vivida impressione di realtà, data dalla forza delle immagini delle quali si compongono. Anche se Walton parla della rappresentazione come di un mondo altro rispetto al reale, tuttavia pone la partecipazione come direttamente proporzionale al realismo dell’opera e afferma, dunque, che tale partecipazione risulta inibita quando l’illusione di realtà viene meno – ad esempio nel momento in cui la rappresentazione manifesta la propria finzionalità, cioè quando esibisce la propria materialità e la propria natura di artificio (condizione tipica dell’arte delle avanguardie).
L’autore osserva inoltre come la finzionalità sia in grado di produrre conoscenza: una comprensione profonda del reale, degli altri e, soprattutto, di se stessi, in quanto il far finta porta ad «affrontare i sentimenti che proviamo», ad agevolare l’autoriflessione, a considerare oggettivamente i nostri stati mentali ed emotivi e a gestirli razionalmente.

"E’ stato variamente suggerito che tali attività forniscano le opportunità di sperimentare ruoli che ci sono inconsueti, così da aiutarci a comprendere e a immedesimarci in persone che hanno quei ruoli nella vita reale e a sviluppare le abilità necessarie ad assumerli a nostra volta; che ci mettano a disposizione degli innocui punti di sfogo attraverso i quali dare espressione a emozioni pericolose o socialmente inaccettabili, o ci purifichino da quelle indesiderabili, o ci aiutino a riconoscere e accettare sentimenti che sono repressi o semplicemente inarticolati; che ci assistano nel risolvere conflitti e nel guardare in faccia tratti inquietanti o sgradevoli di noi stessi e delle situazioni in cui veniamo a trovarci; che ci facciano fare esperienza nell’affrontare quei tipi di situazioni che potremmo aspettarci di dover effettivamente fronteggiare; […] Quali che siano esattamente i benefici delle altre attività immaginative, sembra ci si debba aspettare che il fruitore che usa un romanzo o un dipinto come supporto in un gioco di far finta ne goda di analoghi."

Riassumendo, le rappresentazioni sono dei supporti per l’attività immaginativa, la quale innesca dei giochi di far finta. Ciò che è caratteristico della finzione è che gli attori sono coinvolti in pratiche, o veri e propri giochi, di fare finta, dello stesso tipo di quelli in cui si impegnano i bambini quando giocano agli indiani, a guardie e ladri, a dottore e paziente e così via. E tale finzione ha un carattere pragmatico e cognitivo, segue delle regole e non consiste in una semplice adeguazione al reale, ma in una produzione originale di senso. Perché l'esperienza immaginativa, benché fittizia, è un’esperienza che noi facciamo, un'esperienza che lascia in noi una traccia reale, non fittizia. Se la finzione riguarda un mondo a parte, l'effetto che ha su di noi è estremamente reale. Perché la finzione, in fondo, è reale: passa attraverso il nostro sistema nervoso, il nostro corpo, vive dentro di noi e ci trasforma.


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