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martedì 27 novembre 2018

L'inquietante estraneità della fotografia

Alexander Gardner, ritratto di Lewis Payne 1865.

Ciò che è familiare, a volte può diventare stranamente inquietante. Tutti, nella nostra vita, abbiamo fatto esperienze di questo tipo. A volte basta guardarsi in uno specchio e non riconoscersi oppure aggirarsi per la propria casa di notte, in penombra, e sentirla inaspettatamente estranea e minacciosa, oppure con la coda dell’occhio avere la sensazione che un manichino o una bambola muovano gli occhi, o ancora sarà capitato di percepire il verificarsi di strane coincidenze o di rivivere più volte la stessa situazione. Queste sono tutte esperienze di ciò che Freud definiva Unheimlich.
In questo post mi propongo, seppur in modo superficiale, di avanzare l’ipotesi secondo cui l’esperienza di fruizione di una fotografia è sempre, seppure in forma latente, associabile a un senso di inquietante estraneità, cioè di unheimlich (che in italiano traduciamo con il termine “perturbante” e in francese con l’espressione inquiétante étrangeté).

A questo proposito, tenterò di trarre un punto di convergenza tra due saggi, alquanto distanti tra di loro, sia temporalmente che dal punto di vista del tema trattato: Das Unheimlich (“Il perturbante”, 1919) di Sigmund Freud e La camera chiara (1980) di Roland Barthes. Freud, nel suo saggio, non tratta di fotografia, né Barthes menziona il saggio di Freud nel suo. Purtuttavia, alcune considerazioni del semiologo francese sembrano suscettibili di essere accostate a quelle del fondatore della psicanalisi.
Quello di unheimlich è un termine difficilmente traducibile nelle altre lingue. A livello lessicale, è la negazione di heimlich, che in tedesco ha il significato di familiare, confortevole (da Heim, casa).
Scrive Freud: “il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”. Esso è pertanto una categoria estetica che scaturisce dall’incontro di due termini ossimorici: spaventoso e familiare. Il perturbante, però, non è equivalente a spaventoso e neppure il contrario di familiare. Piuttosto esso è l’angoscia che scaturisce da un qualcosa che conosciamo ma di cui percepiamo un che di estraneo, sconosciuto, enigmatico.
“È unheimlich tutto ciò che doveva rimanere segreto ma è venuto alla luce. […] L’elemento spaventoso è costituito da qualcosa di rimosso che si ripresenta. […] Questo elemento perturbante non è in realtà nulla di nuovo o estraneo, ma un elemento ben noto e impiantato da lungo tempo nella psiche, che solo il processo di rimozione poteva rendere estraneo.” 
L’unheimlich è, pertanto, qualcosa che in passato era familiare, che poi la rimozione ha sepolto e che infine riaffiora alla luce.
Freud elenca otto cause dell’insorgere del perturbante. Esse riguardano, ad esempio, oggetti inanimati che sembrano animati (come bambole, statue di cera, automi, manichini) o viceversa esseri animati che appaiono inanimati, la cecità, le coincidenze e le ripetizioni, la confusione tra realtà e immaginazione, l’ essere sepolti vivi in stato di morte apparente, l’apparire del doppio (gemelli, sosia, Doppelgänger etc.). Il mio accostamento iniziale sarà parso eccentrico, ma come negare che alcuni di questi elementi sembrino richiamarsi all’essenza stessa dell’immagine fotografica? In una fotografia ciò che era animato risulta pietrificato in una totale immobilità; l’immagine fotografica è ripetibile all’infinito; quando guardiamo una foto vediamo e nominiamo l’oggetto in essa contenuto, confondendo l’immagine con la realtà; con la fotografia facciamo l’esperienza del doppio e la filosofia del Novecento ha spesso associato la fotografia alla morte.
A proposito dell’automa che sembra prendere vita: anche la macchina fotografica è un automa, una macchina che vede e crea immagini, e che sembra avere una propria volontà; un occhio automatico che, per certi aspetti, riesce a usurpare la supremazia dell’occhio umano. Il suo sguardo obiettivante, inoltre, riduce eventi, situazioni, persone - la realtà stessa - in un'immagine, in un oggetto immobile e inanimato, creato a partire da un originale animato.
Ma ci sono altri aspetti particolarmente perturbanti in una fotografia. Le è connaturato, infatti, il rimando alla logica ambivalente del doppio. Sarà capitato a tutti, ad esempio, di guardare un proprio ritratto fotografico (ciò che Barthes definisce “autoscopia”). Questa esperienza sottende una sfumatura inquietante, perché nell’immagine che ci ritrae noi vediamo noi stessi, eppure non riusciamo quasi mai a riconoscerci del tutto. Rimane sempre uno scarto, un’ombra ambigua che ci sfugge, un fantasma indissolubilmente legato a un tempo che è passato e che non torna più. Barthes riconosce in questo la “follia profonda” dell’immagine fotografica:

“La fotografia è infatti l'avvento di me stesso come altro, un'astuta dissociazione della coscienza d'identità”.

Nella fotografia, e in particolare nel ritratto fotografico, è dunque connaturato un effetto straniante. Essa infatti è in grado di mostrarci, di noi stessi o delle persone che amiamo, un volto o un aspetto che non conoscevamo, rivelandoci qualcosa di nascosto o di estraneo (ritorna la questione dell'eccedenza dell'immagine, cioè della sua capacità di rendere visibile il mondo in maniera diversa rispetto alla percezione naturale). Questo effetto straniante è proprio l’esperienza del perturbante: l’essere di fronte a qualcosa di familiare che, tuttavia, ci appare estraneo e ambiguo. Il soggetto fotografico (referente) subisce il disagio del processo dissociativo di essere contemporaneamente sé e altro da sé e conseguentemente la sua reificazione in oggetto. Nel momento in cui viene fotografato, il “bersaglio” non è né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto: in quel momento vive una micro-esperienza di morte e diventa veramente spettro. L’“io” fotografato, e reso immagine, fa esperienza dell’alterità osservandosi nel ritratto che di lui fa il fotografo. Il soggetto della fotografia, mettendosi in posa, prova il turbamento dell’inautenticità, recita, imita se stesso; fissato in un doppio immobile, è destinato poi a rivedersi come altro da sé, in un’immagine che lo trasforma in oggetto.

Leggendo il saggio di Barthes, l’altro aspetto più inquietante della fotografia sembra essere il suo rapporto con la morte, tanto è vero che il soggetto ripreso (colui che “subisce” la foto) viene definito con il termine di spectrum, per comprendere il quale occorre riandare a ciò che il semiologo chiama il “noema” della fotografia. Scrive l’autore:
“La foto è letteralmente un’emanazione del referente. Da un corpo reale, che era là, sono partiti dei raggi che raggiungono me, che sono qui; la durata dell’emissione ha poca importanza; la foto dell’essere scomparso viene a toccarmi come i raggi differiti di una stella.”
E’ questo, secondo Barthes, il “noema” della fotografia, ciò che la differenzia dalla pittura e dal discorso verbale, e cioè il fatto che il referente non è la cosa facoltativamente reale, a cui rimanda un’immagine pittorica o un segno, «bensì la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obbiettivo». Per quanto riguarda la fotografia, non si può “mai negare che la cosa è stata là”.
Sorvoliamo sulla confusione che spesso è stata tratta da questa affermazione, in primo luogo tra realtà e verità. Dire che la fotografia non mente sull’esistenza dell’oggetto non significa che non menta o non possa mentire sul senso della cosa, anzi, afferma Barthes, essa è “tendenziosa per natura”, al pari della pittura e delle altre arti. Quando Barthes si proclama realista non intende dunque dire che la foto è copia del reale, ma che è un’emanazione di un reale passato, che la fotografia mostra con tutta la parzialità e ambiguità di un’immagine.
L’espressione «è stata là», oltre a insistere sull’esistenza reale di ciò che viene fotografato, indica un altro aspetto fondamentale delle tesi di Barthes, ovvero il legame della fotografia con il passato. Il referente è un’assenza, qualcosa che una volta “è stato”. La natura ontologica della fotografia è dunque l’unione tra realtà e passato. Ciò ne attesta la sua contingenza; Barthes stesso la definisce “da ectoplasma”: la foto è “un medium bizzarro, una nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo”. Il referente è caparbiamente reale e nello stesso tempo è un’assenza, un qualcosa che non c’è più. E’ un’emanazione, un’apparizione, un fantasma.
Colui che subisce la foto viene infatti definito spectrum, che ha la stessa radice del termine “spettacolo”: “questa parola – scrive – mantiene un rapporto con lo spettacolo aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”.
La stessa espressione verrà usata da Derrida: “Il ritorno del referente ha proprio la forma dell’ossessione. È un ritorno del morto, il cui arrivo spettrale nello spazio stesso del fotogramma assomiglia molto a una emissione o a una emanazione.” (Derrida, Psyché)
Nella fotografia non c’è avvenire, solo un ristagno di presente e passato: è questo che avvicina la fotografia alla Morte: il senso “macabro” di un essere senza-futuro, di un “è stato” immutabile. E’ paradossale come l’immagine fotografica, volendo, da un lato, contrastare la morte finisca, dall’altro, per evocarla incessantemente.
"Per quanto viva ci si sforzi di immaginarla (e questa smania di “rendere vivo” non può essere che la negazione mitica di un'ansia di morte), la Foto è come un teatro primitivo, come un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti."
Barthes si sofferma, in particolare, su una fotografia, il Ritratto di Lewis Payne di Alexander Gardner (1865). L’immagine presenta un condannato a morte. Noi sappiamo che Payne è già morto, in quanto l’evento è avvenuto più di un secolo fa. Eppure vederlo di fronte a noi ora, da vivo, confonde il piano temporale e ci porta a pensare al fatto che, in quel momento in cui è stato ritratto, stava per morire. Ecco una vera e propria “vertigine”, una lacerazione nel continuum temporale. Di fronte al Ritratto di Lewis Payne diciamo, con Barthes: “è morto e sta per morire”.
La fotografia è, insomma, un gioco indefinito di morte e resurrezione. Scrive Stefano Ferrari:
“D’altra parte, questo senso di morte che così spesso colleghiamo alla fotografia è già come iscritto nel bisogno stesso che l’uomo ha di fotografare e fa tutt’uno con esso, rappresentando semplicemente, come si suol dire, l’altra faccia della medaglia. La fotografia, infatti, nella sua sostanziale ambiguità blocca e congela la vita nel suo libero fluire, ma esprime così anche tutta la sua forza, nella misura in cui questo le consente, in senso lato, di sottrarre qualcosa alla caducità.”



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