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lunedì 24 settembre 2018

Le giungle selvagge di Henri Rousseau e Antonio Ligabue

Entrambi sono stati definiti pittori naïf (letteralmente: ingenuo). Di sicuro pittori autodidatti, estranei a scuole e tendenze. In un secolo caratterizzato dalla ricerca della spontaneità, dell’istintività e del superamento delle regole della rappresentazione ereditate dal passato, i pittori naïf ottengono questi risultati partendo dal solo impulso creativo individuale. E per questo molti riconoscono alla loro opera una grande forza di rottura.
Le opere di Henri Rousseau, detto il Doganiere (il primo artista naïf riconosciuto come tale) e dell’italiano Antonio Ligabue si richiamano ai sogni e alle favole; le loro giungle tropicali hanno atmosfere magiche e colori brillanti; la violenza e la ferocia che le animano hanno una purezza onirica e primitiva, non filtrata da alcuna sovrastruttura stilistica o ideologica. Nei dipinti di entrambi traspare un atteggiamento di comunione con la natura, che è madre primigenia e insieme matrigna feroce, depositaria del mistero tragico e grandioso della vita.

La natura selvaggia e misteriosa di Henri Rousseau, detto il Doganiere

Armonia e mistero, seduzione e inquietudine, luce e ombra: accostarsi a L’incantatrice di serpenti di Henri Rousseau, detto il Doganiere, è un’esperienza dei sensi che, come gli animali della foresta, si lasciano incantare dall’atmosfera magica e dalla sinfonia ammaliatrice dei colori e delle forme presenti sulla tela.


Henri Rousseau, detto il Doganiere, L’Incantatrice di serpenti, 1907, Parigi, Musée D’Orsay.


Ogni elemento è nuovo. Il soggetto in primo luogo: una Eva nera, che ci guarda e che ci investe con il bagliore dei suoi occhi, posta in un giardino lussureggiante e ombroso nello stesso tempo, al cospetto di un serpente spaventoso come quello della Genesi, avviluppato ai rami di un albero. Ma questa volta non è la donna che si lascia sedurre dall’antico adulatore, ma è quest’ultimo a farsi incantare dalla melodia del flauto suonato da questa Eva esotica. Lo stile in secondo luogo: colori freschi e densi, in controluce, un tratto sia naïf che preciso e dal disegno accurato.
Questa donna ammalia e doma la natura selvaggia, ma ne è parte essa stessa. Qui non c’è contrapposizione tra umanità e natura: la figura femminile è immersa armoniosamente nel suo ambiente, silenzioso e come immobilizzato da un incantesimo creato dalla melodia. Questo moderno Eden ha le atmosfere di un mondo onirico, esotico e primordiale, profondamente poetico. Si sviluppa in uno spazio bidimensionale, chiuso a destra dalla foresta fitta e aperto a sinistra sul paesaggio acquatico illuminato dalla luna. La composizione è complessa per i diversi piani che si sovrappongono uno all’altro e per la singolare illuminazione lunare che colpisce la vegetazione e si riflette sull’acqua, ma lascia del tutto in ombra la donna, rendendola particolarmente misteriosa e seduttiva. Lo stile è lineare con forti contorni e campiture di colore. I soggetti sono frontali, le linee decise, le figure piatte senza prospettiva, il colore ripartito in blocchi uniformi, senza ombre, la profondità è resa da una diversa gradazione delle tinte, tra le quali predomina il verde. Il giallo vigoroso e metallico che profila le foglie dei cespugli in primo piano si intona con l’effetto ipnotico dei suoni della natura e del magico flauto.


Henri Rousseau, Lotta fra tigre e bufalo (1908-1909), Cleveland Museum of Art, Cleveland, Ohio – Public Domain via Wikipedia Commons

Rousseau, detto il Doganiere (per via del suo impiego nel Dazio parigino), è stato un pittore e artista autodidatta. Per questo ha ricevuto per lungo tempo scarse considerazioni dalla critica che, all’inizio, lo ha considerato un pittore ingenuo e incolto e dopo si è limitata banalmente a farne il progenitore del genere naïf. Il Doganiere invece è stato un punto di riferimento per molti intellettuali e pittori del suo tempo e di quello dopo, come Apollinaire e André Breton, Morandi e Carrà, Frida Kahlo e Diego Rivera, ma soprattutto Kandinsky e Picasso, che elogiavano il Doganiere per la sua capacità nell’uso del colore e che nelle sue opere vedevano uno sguardo puro e libero da ogni regola codificata, un modo di porsi di fronte alla pittura che è stato felicemente definito “candore arcaico”.


Henri Rousseau, Tigre in una tempesta tropicale, 1891 – Public Domain via Wikipedia Commons

Questa tela è legata ai rapporti di amicizia tra Rousseau e il pittore Robert Delaunay. Spinta dal figlio, madame Delaunay commissionò L’incantatrice di serpenti al Doganiere, affinché rievocasse i ricordi esotici di un viaggio in India da lei compiuto anni prima.
Rousseau coltivava i suoi sogni esotici rimanendo a Parigi. La maggior parte delle giungle da lui raffigurate, caratterizzate da vegetazione straordinaria, sono state realizzate presso il Museo di Storia naturale e nella grande serra del Giardino delle piante.


Henri Rousseau, Il sogno, 1910.

Le sue giungle sono selvagge e nello stesso tempo permeate di visioni ed atmosfere da fiaba popolare, immagini che penetrano nella mente dell’osservatore e colpiscono la sua parte irreale, onirica, pre-sociale, quella che risale ai sogni e alle paure dell’infanzia sopita.
In alcune “giungle” del Doganiere, protagoniste sono delle fiere che azzannano le loro prede. Ma in questi dipinti, come anche ne “L’incantatrice di serpenti”, non trapela nessun alone morale: non c’è in quelle scene la rappresentazione del conflitto tra uomo e natura, tra bene e male, tra civiltà e mondo selvaggio. Quei paesaggi sono al di qua di ogni considerazione di derivazione etico-sociale. Sono piuttosto le visioni dello sguardo “innocente” (ma non ingenuo) del poeta, che cerca la natura incontaminata e che rimane al di qua di ogni sovrastruttura. Le sue giungle, anche quelle dove le prede soccombono al predatore, non sono mai cruente e crudeli; la ferocia non spezza l’armonia primitiva dell’insieme.

   
Henri Rousseau, Cavallo attaccato da un giaguaro, 1910.

Nel caso de “L’incantatrice di serpenti”, poi, l’apertura dell’intrico di piante a sinistra, su un paesaggio d’acqua, rende l’atmosfera consolante e rappacifica l’inquietudine che ci provoca la giungla fitta a destra del quadro. Ecco l’armonia, che non significa assenza di oscurità e di mistero, ma piuttosto coesistenza pacifica di opposti: il fiume placido e illuminato scorre accanto alla giungla ombrosa, la donna è vicino agli animali feroci, l’airone rosa sosta accanto ai serpenti neri, il fascino e il pericolo, la pace e l’inquietudine vibrano sulla stessa tela.
La donna d’ebano con il serpente sulle spalle non è, così, la strega, il demonio che ammalia, come nel simbolista Franz von Stuck, ma è una Venere nera che ammansisce gli animi, mostrandosi come una purezza primitiva, nuda e incorrotta come la Verità.                               
Il dipinto fu molto ammirato dai surrealisti.



Le bestie feroci di Antonio Ligabue


Antonio Ligabue, Leopardo con serpente, 1952.


La vicenda di Antonio Ligabue racconta una storia non inedita nella storia dell’arte: quella di uno stupefacente genio creativo racchiuso in ciò che la nostra cultura etichetta come follia. Ma se nell’universo di questa parola ambigua e fumosa includiamo un modo “altro” di essere e di vedere il mondo, ecco che allora la follia diventa uno spiraglio che si apre su possibilità sconosciute, su realtà inimmaginabili, che solo l’occhio che sfugge ai cliché e agli schemi consueti può cogliere.
L’arte di Antonio Ligabue è espressione di quel lato oscuro fatto di istintività immediata, primitiva, non filtrata da alcuna sovrastruttura stilistica o ideologica. Nei suoi quadri si coglie la sua totale appartenenza al mondo che rappresenta, al di fuori di ogni considerazione morale o teorica.


Antonio Ligabue, Vedova nera, 1955.


Per questo Ligabue è stato per lungo tempo etichettato come pittore naïf, cioè come artista ingenuo, “selvaggio”, lontano da qualsiasi corrente artistica e da ogni condizionamento teorico e stilistico. L’arte del Novecento, in buona parte delle sue espressioni, ha cercato soprattutto uno sguardo “altro”, nuovo, non convenzionale, sulla realtà, in grado di liberarla dalle pastoie delle sovrastrutture che impedivano che essa prorompesse nella sua verità. Espressionisti, cubisti, dadaisti, surrealisti, astrattisti lo hanno fatto seguendo strade concettuali. Ligabue ha creato un potente affresco espressionista della sua poetica interiore, ma senza che il proprio ingegno creativo venisse addomesticato da manifesti ideologici.


Antonio Ligabue, Tigre assalita dal serpente, 1952.

Egli dava forma alle immagini che si agitavano nella sua fantasia, traendo ispirazione dai libri illustrati, dai musei di storia naturale, dall’esperienza diretta nel circo e in campagna. I suoi soggetti sono molto spesso bestie feroci che danno vita a un teatro di ferocia e spietatezza, anche se la violenza caratterizza anche le rappresentazioni di animali domestici, che dipingerà soprattutto negli ultimi due decenni della sua vita.
La visione delle immagini lasciano intuire la tensione e l’eccitazione che hanno caratterizzato il momento della loro creazione e che continuano ad animare i soggetti raffigurati, dando l’impressione di poter avvertire lo spasimo e la paura delle prede braccate, la brama furiosa dei predatori.
«Quando dipingeva animali feroci - scriveva uno dei suoi primi estimatori, il grande artista Marino Renato Mazzacurati - si identificava con loro a tal punto da assumerne gli atteggiamenti. Ruggiva spaventosamente, e imitava il leone, la tigre, il leopardo nell'atto di azzannare la preda. Sorprendente era la sua conoscenza della struttura anatomica degli animali, dei loro istinti, della loro forza».
L’insidia è una presenza costante nelle sue tele, il pericolo che incombe alle spalle con i suoi artigli spietati. Mai un attimo di quiete che rallenti la tensione. Nelle foreste come nelle campagne la vita è essenzialmente lotta senza scampo contro un nemico molto più forte. Anche i paesaggi non sfuggono a questa logica, siano essi lussureggianti foreste o sobri campi di pianura: il pericolo giunge dal fulmine che spaventa i cavalli, dalla frusta che colpisce i buoi attaccati al giogo, dalla tempesta che si annuncia in lontananza.
Anche nei suoi numerosissimi autoritratti, ossessivi e senza ombra di compiacimento, Ligabue si dipinge uno sguardo incerto, allarmato, da animale braccato che fiuta il pericolo e si guarda alle spalle.

Antonio Ligabue, Testa di tigre, 1955-56.


Forse Ligabue non raggiunse mai una consapevolezza concettuale e stilistica del suo dipingere, ma la sua opera, che trasforma una sensibilità profonda e oscura nell’immagine spietata e vera della realtà della vita, coniugando in modo così struggente bellezza e crudeltà, non può che definirsi arte nel senso più compiuto, essendo stata capace di dire con la forza universale delle forme, dei colori e della luce ciò per molti rimane un dolore sordo e inespresso.
Ligabue ha avuto la capacità di trasformare gli incubi di una mente alienata e le sue ossessioni maniacali in visioni incantate e immagini potentissime, cariche di vitalità e di colori che squillano come trombe. Tigri con le fauci spalancate, leoni nell'atto di aggredire una gazzella, leopardi avviluppati da serpenti, cavalli assaliti da orsi o da lupi e galli in lotta: predatori e prede, selvatici e domestici, Ligabue sentiva gli animali come compagni. Il mondo degli uomini, con la sua violenza gratuita e burocratica, gli appariva incomprensibile e crudele. L'orrore e la violenza che traboccano dai suoi quadri hanno invece l’innocenza dell’istinto ancestrale.
Immerso nella natura, ne percepiva le forze che sentiva irrompere dentro di sé e nel mondo intorno.
Libero dalle costruzioni artificiali che le culture edificano per sublimare l'aggressività e la paura, Ligabue, con l'intuito empatico dell'uomo primitivo, trae dalle sue viscere immagini spietate che mostrano come la legge primordiale di ogni esistenza non sia altro che l'originaria lotta per la vita.
Il taglio scelto da Ligabue nella composizione esalta sempre la centralità della figura o delle figure prevalenti, dedicando grande cura alla drammatizzazione, alla concentrazione del movimento, alla rappresentazione degli stati d’animo delle bestie raffigurate, alla resa di una stupefacente fisicità dei corpi e di una serrata tensione narrativa. Anche i colori, forti, densi, accesi, spesso acidi e aggressivi, esprimono con molta forza le emozioni e i turbamenti del mondo interiore dell’artista.
Nell’atmosfera surreale della Bassa Padana, in quell'universo anfibio tra terra e fiume, si raccontava la storia di “Toni el matt”, l’uomo selvaggio e solitario che dipingeva le belve feroci della giungla e che sognava di diventare un uccello rapace.


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