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giovedì 6 settembre 2018

La prospettiva come espressione dell’antropocentrismo moderno

Piero della Francesca, Flagellazione, 1458-59 ca., Galleria Nazionale delle Marche di Urbino.

Nella prospettiva trova espressione la cultura antropocentrica dell’età moderna. Il nuovo stile pittorico che chiamiamo Rinascimento, fondato sulla prospettiva e sulla razionalizzazione dello spazio, è il segno di una nuova attitudine dell’uomo verso il mondo, di una trasformazione spirituale, culturale e sociale che in parte ritrova la perduta tradizione dell’umanesimo classico.
Il concetto di spazio che si viene ad affermare in questo periodo non è l’espressione di leggi eterne, immutabili e astratte che regolano la visione e la rappresentazione, ma va compreso in relazione al clima storico e sociale in cui si è costituito. La prospettiva, cioè, non è uno schema universale, ma fonda le sue basi in un sistema culturale e un movimento generale di idee che non nasce all’improvviso, ma si sviluppa nel corso di più generazioni.

L’immagine prospettica attribuisce all’osservatore una posizione privilegiata, che riconosce sia il primato del soggetto sul piano della conoscenza sia la sua centralità nell’agire storico. Per questo la prospettiva è il segno del costituirsi di un pensiero antropocentrico, che si lascia alle spalle l’impostazione teocentrica medievale.
Il Rinascimento ha trasposto in immagine l’uomo in quanto individuo, celebrandolo sia nel ritratto (dove appare come volto), sia nella prospettiva (che rappresenta lo sguardo dell’uomo rivolto al mondo). Di fronte all’immagine, l’osservatore occupa una posizione centrale: egli si sente sovrano nei confronti del mondo, perché l’immagine è la proiezione del suo punto di vista. Lo spazio rappresentato non è più quello assoluto e divino, ma la proiezione di un punto di vista soggettivo, insieme individuale e universale: individuale perché si suppone occupato da un unico osservatore con un solo occhio aperto; universale perché qualsiasi altro osservatore potrebbe trovarsi esattamente in quel punto e ricostruire lo spazio che da esso prende forma secondo le leggi universali della geometria euclidea e dell'ottica.
La prospettiva lineare, che ordina la molteplicità in unità e mette insieme infinito e finito, è una sintesi di razionalità e trascendenza; è l’immagine di un mondo retto dalle leggi divine aristotelicamente intese come ragione, ma frequentato sia dall’uomo che da Dio e padroneggiato dallo sguardo umano. L’umanesimo trova in questo tipo di prospettiva la propria forma simbolica: l’uomo al centro del mondo col suo punto di vista, individuale e universale a un tempo.
Il punto di fuga pone l’osservatore in una posizione privilegiata per guardare, scoprire, scrutare a distanza. In quello spazio dominato dal suo sguardo, Dio stesso può farsi immagine e rendersi visibile, afferrabile. Secondo alcuni studiosi, come Hans Belting, nella prospettiva rinascimentale l’individuo prende coscienza di sé grazie a questa presa di distanza. Non più la subordinazione totale a Dio e alla fede propria del Medioevo: lo spazio tridimensionale che si spinge nel punto di fuga manifesta lo spazio che l’individuo ha posto tra sé e Dio e, dunque, la sua conquistata emancipazione.
Secondo altri, come McLuhan e Florenskij, l’immagine medievale, che proiettava il punto di fuga nello spettatore, permetteva a questi un ruolo più attivo, mentre l’immagine rinascimentale, con la sua ortogonalità rigorosa, ne limita decisamente l’iniziativa imponendogli uno e un solo punto di vista. E così l’apertura dello spazio verso l’infinito diviene una chiusura, una gabbia che incatena lo sguardo a un punto solo, quello di fuga, che è un punto illusorio, irraggiungibile e inesistente nella realtà, un non-essere che tuttavia tiene insieme il tutto. Ed è questo il paradosso dell’immagine rinascimentale e del costituirsi della soggettività moderna: quella presa di distanza che l’uomo stabilisce tra sé e Dio, tra sé e il mondo, tra soggetto e oggetto, è un affacciarsi sul vuoto. L’uomo si scopre al centro dell’universo e sovrano del suo mondo, ma questa condizione porta con sé un drammatico corollario: avendo preso le distanze da tutto, egli è ora drammaticamente solo. Nel momento in cui gli si aprono davanti infinite possibilità, scopre anche una voragine che dovrà colmare col suo genio e la sua ragione. L’immagine prospettica e il suo punto di fuga diventano allora l’allegoria di questa nuova condizione, eroica e tragica ad un tempo.
Dell’aspetto tragico dell’Umanesimo si è occupato, in particolare, il filosofo Cacciari, che ne parla in questa interessante conferenza avente ad oggetto alcuni dipinti di Piero della Francesca.



In particolare si sofferma sulla celebre tavola della “Flagellazione”, famosa soprattutto per l’enigma che tuttora l’avvolge, in quanto restano ancora misteriosi o non definitivamente accertati la data, la circostanza e l’autore della committenza, le identità di alcuni personaggi raffigurati, l’evento storico cui l’opera fa riferimento, il suo significato.
Qui la prospettiva è il dispositivo che conferisce unità e rigore alla composizione, che come si vede, è divisa in due parti e mette insieme contesti spaziali e architettonici (Gerusalemme - o forse Costantinopoli - a sinistra, un luogo non ben definito, ma sicuramente “italiano”, a destra) e temporali (l’epoca di Cristo da una parte, quella contemporanea a Piero dall’altra) molto diversi. Nella visione prospettica coesistono, in un’impressione di assoluta immobilità sospesa, due diversi eventi, che però non scorrono in modo discontinuo come nelle rappresentazioni medievali (dove più episodi di una storia venivano raffigurati in spazi adiacenti o secondo una sequenza), ma possono essere abbracciati contemporaneamente dallo sguardo grazie all’ordine armonico e unitario conferito dalla prospettiva e da altri accorgimenti geometrico-matematici (come il rapporto aureo tra le due metà del dipinto e le relazioni simmetriche tra vari elementi della scena).
Il divino è relegato in secondo piano, mentre in avanti, in posizione di preminenza, vediamo tre maestose figure dall’espressione greve. Su di loro, probabilmente, preme il peso di scelte importanti e drammatiche, decisive per il destino della cristianità. E’ questa l’essenza dell’Umanesimo tragico, secondo Cacciari, epoca che mise al centro l’Uomo e la sua ragione, ma che fu altresì sconvolta da eventi profondamente traumatici, quale fu quello rappresentato dalla caduta dell’Impero Romano d’Oriente ad opera dell'esercito ottomano. La scena della flagellazione sarebbe quindi una metafora della sofferenza che la cristianità subì per mano dei turchi nel 1453.
Si noti, infine, il personaggio con turbante, di spalle rispetto alla flagellazione. La sua posizione rispetto alla figura di Cristo e dei due aguzzini ricalca quella dello spettatore del dipinto rispetto ai tre astanti in primo piano. Quella figura, pertanto, non fa che proiettare l'osservatore dentro il quadro stesso, favorendone il coinvolgimento nella scena e nella storia.


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