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venerdì 21 settembre 2018

La pittura fiamminga e la nascita dello spettatore classico

Johannes Vermeer, Lezione di Musica, 1662–1665.

Teatralità e assorbimento
Mentre in Italia e in altri regioni europee impazza lo stile barocco, spettacolare e teatrale, in terra fiamminga, dove la riforma protestante aveva abolito le immagini di culto, si diffondono al contrario sobrie scene di interni borghesi, dove i personaggi sono spesso rappresentati di schiena, del tutto assorti nelle proprie faccende quotidiane ed estranei alla presenza dello spettatore.
Recuperiamo a tal proposito i concetti di “teatralità” e “assorbimento”, riproposti alla fine del secolo scorso da Michael Fried, per distinguere tra le immagini che non sono autonome perché dipendono dallo spettatore che le guarda e con il quale instaurano una relazione, e quelle che, al contrario, negano o ignorano la presenza dello spettatore. Fried definisce la teatralità “centrifuga”, perché in questo caso il quadro stabilisce un rapporto di reciprocità con l’esterno, mentre l’assorbimento è “centripeto”, cioè chiuso in se stesso o comunque privo di alcun rimando a un osservatore.

Secondo l’originale lettura di Michael Fried, è proprio verso la metà del Settecento che il rapporto tra opera d’arte e spettatore diviene oggetto di una elaborazione teorica consapevole, soprattutto in ambito francese e in particolare da parte dell'illuminista Diderot. Questi scrive a proposito della rappresentazione teatrale, elaborando delle tesi che saranno fondamentali per l’affermarsi della moderna pratica attoriale. Le sue asserzioni in questo campo sono note: affinché l’illusione drammatica possa essere efficace, occorre che il personaggio coincida totalmente con la figura dell’attore, in modo che questi scompaia agli occhi del pubblico.
Si levano più voci nella stessa direzione e le raccomandazioni sono sempre le stesse: l’attore non deve mai vagare con lo sguardo sui palchi o sulla platea, ammiccare, accennare e rivolgersi a questo o quello spettatore, perché ciò significherebbe uscire fuori dal personaggio. Già nella prima metà del secolo l’insistenza su questo punto era diventata un luogo comune, costituendo il presupposto su cui verrà definita la nozione di ‘quarta parete’, sempre ad opera di Diderot:
«Sia dunque che componiate, sia che recitiate, fate conto che lo spettatore non esista. Immaginate, sul limite del palcoscenico un gran muro che vi separi dalla platea; recitate come se il sipario non si fosse alzato».
L’attore che agisce sulla scena, dunque, non deve mostrare consapevolezza di essere osservato e deve immaginare l'esistenza di una quarta parete che divide il palcoscenico dalla platea. La sua consistenza come attore risiede nella capacità di rispettare e di non infrangere l’illusione del dispositivo scenico e teatrale, nascondendosi completamente dietro il suo personaggio.
La trattatistica settecentesca sull’argomento segnava il definitivo passaggio dalla concezione oratoria alla concezione drammatica della recitazione.
Questo dettato sarà ripreso da Stanislavskij, il cui metodo prevede una messa in scena naturalistica che, attraverso l’immedesimazione dell’attore nell’azione, dia l’illusione di un mondo distinto dal reale, protetto da una quarta parete invisibile che separa lo spettacolo dalla platea. Questo teatro esclude totalmente il pubblico, che fruisce passivamente del dramma come un voyeur che spia attraverso la fessura di una porta, ma che solo in questo modo è in grado di raggiungere l’immedesimazione nella storia e nei personaggi e la catarsi aristotelica.
Questa visione dello spettatore teatrale si estenderà anche al campo artistico. Nello stesso periodo, infatti, viene teorizzato un concetto importante che influenzerà la fruizione estetica futura: per essere vera e autentica un’opera d’arte deve innanzitutto negare lo spettatore. Fried definirà tutto ciò con l’espressione di “paradosso dello spettatore”, che consiste nel fatto che un quadro ha tanta più capacità di attrarre lo spettatore quanto più finge la non esistenza dell’osservatore di fronte a sé.
Se il personaggio rappresentato è assorbito e concentrato in un’azione, estraneo a tutto ciò che gli accade intorno, allora anche lo spettatore potrà concentrarsi sull’opera d’arte ed esserne assorbito, fino ad isolarsi dal resto del mondo. Per Fried l’assorbimento dell’oggetto artistico su se stesso e l’assorbimento dello spettatore nell’oggetto artistico è la garanzia per realizzare un’autentica esperienza estetica.
In poche parole, lo spettatore classico (secondo la ripartizione proposta da Christian Ruby ne La figure du spectateur) è quello negato dalla rappresentazione, l’osservatore nascosto, che guarda senza essere visto da colui che è guardato.
Fried prende in considerazione soprattutto certa produzione pittorica francese del Settecento. Ma osservando, ad esempio, alcuni interni di Vermeer e di altri autori fiamminghi del Seicento, l’impressione è anche qui quella di un completo assorbimento. I personaggi sono raccolti nel silenzio, assorti in una concentrazione interiore, intenti nelle occupazioni del quotidiano, del tutto estranei alla presenza di un osservatore al di qua della tela.

La scena rinascimentale conteneva quella che si potrebbe definire una “pregiudiziale teatrale”, consistente nell’organizzazione della rappresentazione tale da convogliare l’attenzione dell'osservatore verso l’evento principale, ricorrendo sia a una particolare strutturazione focale dello spazio che ad altri artifici, come ad esempio gli sguardi e i gesti indicatori di alcuni personaggi ed astanti, finalizzati a creare una sollecitazione nello spettatore.
Essa, inoltre, così come la scena barocca, era strettamente vincolata a funzioni religiose e rituali, per cui è erroneo definire il fruitore di quelle opere con il termine di “spettatore”. Questo concetto presuppone, infatti, l’autonomia della rappresentazione pittorica, cioè il suo svincolarsi da funzioni religiose e politiche, o comunque celebrative, cioè inserite all’interno di contesti in cui il fruitore (il fedele o il suddito) è chiamato a partecipare a una qualche cerimonia rituale, della quale il quadro contribuisce a costruire l’apparato simbolico.
La nascita delle pitture di genere (favorita nei paesi nordici dalla proibizione delle immagini di culto) come gli interni borghesi fiamminghi, senza dubbio contribuisce all’affermazione di una maggiore autonomia della rappresentazione pittorica e di un nuovo rapporto del fruitore con l’opera d’arte, che non si colloca più all’interno dei tradizonali contesti celebrativi di autorità politiche o religiose.
La pittura non è in questo caso vincolata a una narrazione, finalizzata a stimolare la partecipazione attiva dell’osservatore all’interno della scena. Il quadro tratta il pubblico come se fosse assente, le figure ritratte non sembrano preoccuparsi di farsi vedere dallo spettatore; esse sono ignare ed indifferenti a tutto ciò che accade al di qua della tela, completamente assorbite nella propria attività (leggere, pregare, suonare, eseguire le faccende domestiche).

Interni borghesi
Questo è un dipinto di Jan Vermeer del 1657. Siamo nell'Olanda del Secolo d'oro, il Paese dove è presente il più nutrito e coeso ceto borghese del continente: mercantile sul piano economico e riformato sul piano religioso. In questo contesto, si sviluppa una produzione artistica destinata non più ai tradizionali committenti della corte o della Chiesa, ma alla nuova classe dirigente, la borghesia appunto, ai cui valori questi artisti danno forma. E questo committente preferisce delle rappresentazioni legate ai temi della vita quotidiana, piuttosto che i classici soggetti mitologici o religiosi. Si diffonde la pittura di genere: paesaggi, nature morte, ritratti, interni domestici, contesti quotidiani in cui la società borghese può specchiarsi e riconoscersi e con cui, si potrebbe dire, costruire una nuova ritualità laica.
Una società moderna, borghese, è una società che ha stabilito dei confini precisi tra sfera pubblica e sfera privata. Quest’ultima è rappresentata dalla “casa”, spazio non solo fisico ma anche simbolico, che separa ciò che è familiare da ciò che è estraneo. L’interno della casa è il mondo abitato soprattutto dalle donne ed è il luogo della pace e della serenità domestica.
Molti dipinti di questo autore sono ambientati nella silenziosa tranquillità di una dimora, cioè nella sfera privata dei soggetti raffigurati. Il tema della donna che legge o scrive una lettera nella quiete di una stanza è stato da Vermeer rappresentato in numerose opere. Lo spettatore di questi dipinti non è di fronte a un evento storico, mitico o religioso che si dispiega davanti ai suoi occhi apertamente. Di fronte a una scena domestica e intima l’atteggiamento dell’osservatore muta necessariamente: egli è come introdotto di nascosto davanti a situazioni che le pareti delle case racchiudono e proteggono dall’esterno. La qualità dello sguardo subisce un cambiamento radicale. Lo spettatore, di fronte a questi quadri, si sente come colui a cui è stato permesso di “scrutare” con discrezione alcuni momenti di vita privata, ripresi nell'intimità della casa.

Jan Vermeer, Donna che legge una lettera davanti alla finestra, 1657 circa, Gemäldegalerie di Dresda.

In questa opera incantevole di Vermeer, complessa sul piano compositivo, la scena si svolge in una stanza tranquilla e illuminata da una finestra posta sulla sinistra. Oltre il tavolo, una giovane ragazza è intenta a leggere una lettera di fronte alla finestra aperta. La vediamo completamente assorta e appagata nella lettura e nella sua interiorità, infinitamente lontana dal mondo esterno, in cui è collocato lo spettatore.
La costruzione prospettica dell'opera è molto accurata e anche la resa realistica dei minimi dettagli, così come è nella tradizione della pittura fiamminga; ma sono soprattutto gli effetti di luce il grande pregio del dipinto, in particolare sulla grande tenda verde in primo piano. Questa sembra un sipario, tirato da parte per rivelare questo momento privato della vita della giovane donna. Come il sipario di un palcoscenico, che però resta separato dalla platea da una quarta parete invisibile, dietro la quale lo spettatore-voyeur contempla un attimo di intimità. Oltre alla tenda, altri oggetti sembrano costruire una barriera che separa il quadro dallo spettatore: il letto, la pesante coperta, il vassoio e la frutta che ne fuoriesce. Il personaggio che occupa la scena ormai abita un suo mondo autonomo e distaccato, che ricrea con realismo le scene di vita quotidiana.

Sguardo ad ostacoli
Vermeer, da una parte, introduce lo spettatore nell’intimità domestica dei personaggi ritratti, dall’altra lo esclude. La rappresentazione, in effetti, contrasta la volontà dell’osservatore di proiettarsi nello spazio del quadro, rifiutandole quella posizione onnisciente presupposta nella teoria albertiana della pittura. Quest’ultima offriva all’osservatore un punto privilegiato da cui contemplare la narrazione. Lo spazio che caratterizza la pittura di Vermeer, invece, è costruito in maniera paradossale, in quanto, mentre conduce lo spettatore più vicino alla scena, nel frattempo lo mette a distanza. Lo spazio della rappresentazione si chiude e si separa da quello dell’osservatore, grazie a un’elaborazione complessa della composizione e all’utilizzo di alcune strategie visive.
Innanzitutto lo spazio d’interni si manifesta come una totale assenza di vista sull’esterno e sulla natura. In fondo troviamo quasi sempre un muro continuo, privo di aperture, mentre la luce entra per lo più da una finestra posta sulla parete sinistra, che però esclude dal campo visivo ogni presenza esteriore. Questa totale chiusura dello spazio legittima l’affermazione di Pierre Sterckx, secondo la quale la dimora vermeeriana può essere concepita come una casa-monade, completamente dissociata dall’esterno. Questa recinzione che il pittore solleva di fronte all’osservatore assicura una certa autonomia alla rappresentazione, rifiutando allo spettatore la posizione dominante e onnisciente che caratterizzava la pittura rinascimentale.
In secondo luogo il pittore ostruisce il primo piano e tiene lo spettatore a distanza mediante schermi e ostacoli visivi interposti. Ciò contrasta ulteriormente la volontà dell’osservatore di proiettarsi nello spazio del quadro. Oltre a non consentire nessuna apertura nella scenografia dietro i personaggi e ad accecare di luce l’apertura della finestra laterale, Vermeer elabora il primo piano in modo da costruire una sorta di barriera all’approccio dello spettatore. Si tratta di un dispositivo vero e proprio, che Daniele Arasse definisce come una messa a distanza attraverso ostacoli e schermi interposti. Tende, tavoli, tappeti, sedie, strumenti musicali, mobili posizionati ad angolo, oggetti di vario tipo; tutti questi elementi contribuiscono a ostruire lo sguardo e ad ostacolare il percorso in profondità dello spettatore.

Vermeer, Lettera d’amore, 1669-70, Rijksmuseum, Amsterdam.

In questo quadro, “La Lettera d'amore”, il dispositivo si è fatto molto sofisticato; lo spettatore è collocato in un’anticamera in penombra, alla soglia dello spazio privato dei personaggi. Ad esso è consentito di assistere, ma non gli è permessa alcuna intrusione. La tenda drappeggiata, la scopa collocata in diagonale, le scarpe abbandonate sulla soglia della camera completano la scenografia dell'ostruzione. In tutti i casi, l'effetto complessivo che ne risulta è un rallentamento della penetrazione visiva all’interno dell’opera.
Un altro tipo di barriera è riscontrabile nel punto di vista della maggior parte dei quadri di Vermeer, che pone lo sguardo dello spettatore in una posizione di leggera contre-plongée (dal basso verso l’alto). Le figure appaiono conseguentemente più grandi e più distanti.


Tra presenza e assenza
Che i personaggi di Vermeer siano rappresentati di fronte, di schiena o di profilo, ogni volta lo spettatore desideroso di entrare nella scena, penetrandone la delicata intimità, si trova respinto da una serie di barriere e ostacoli e dall’indifferenza dei protagonisti, tanto prossimi nello spazio quanto distanti nell’impenetrabilità del loro universo quotidiano.

Jan Vermeer, Allegoria della pittura, 1666 ca., Kunsthistorisches Museum, Vienna.

Anche nell’opera “Allegoria della pittura”, così come nella “Donna che legge una lettera”, la tenda occupa verticalmente quasi un terzo della superficie dell’immagine. Essa indica chiaramente allo spettatore che la sua visione è limitata, che qualcosa della scena resta invisibile e inaccessibile. Ciò avviene anche quando qualcosa fuori campo è il destinatario delle attenzioni del protagonista, come ne “La suonatrice di chitarra” o ne “La suonatrice di liuto”, in cui una ragazza sorride all’indirizzo di qualcosa o qualcuno che resta fuori dalla scena, e dunque ignoto allo sguardo dello spettatore.

Jan Vermeer, Suonatrice di chitarra, 1672 ca.,  Kenwood House, Londra.

Nello stesso modo, in “Donna con brocca d’acqua”, “Donna con collana di perle” e in “Donna che scrive una lettera alla presenza della domestica”, un personaggio guarda fuori dalla finestra, verso uno spazio cui non abbiamo accesso.

Jan Vermeer, Donna con brocca d'acqua, 1664-65 ca., Metropolitan Museum of Art, New York.

Jan Vermeer, Donna che scrive una lettera alla presenza della domestica, 1670, National Gallery of Ireland, Dublino.

Jan Vermeer, Donna con collana di perle, 1664 circa,  Gemäldegalerie, Berlino.

Come si vede, la visione dello spettatore oscilla continuamente in una dialettica di presenza e assenza, che nega la posizione di un soggetto onnisciente ma passivo davanti al quadro. L’osservatore, infatti, è chiamato ad attivare la propria capacità di immaginazione per dare senso a quelle zone invisibili, a quelle “assenze” che creano discontinuità visiva.
Questo spazio della rappresentazione rompe radicalmente con la concezione albertiana della pittura come finestra aperta sul mondo, caratterizzata dal campo libero, privo di ostacoli o zone oscure o impedite alla vista. In quella, tutto si offriva allo sguardo dello spettatore, senza ambiguità e senza nessun limite alla sua competenza cognitiva. Di fronte ai quadri di Vermeer, invece, la visione è più problematica, ponendosi lungo la dialettica visibile-invisibile, poter vedere-non poter vedere, accesso-ostacolo, che configura la natura voyeuristica dell’azione dell’osservatore, che si esercita a senso unico, senza reciprocità (può vedere senza essere visto). Per cui, da interlocutore di una relazione, il quadro si è qui trasformato in un oggetto puramente da guardare.

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