Pagine

giovedì 6 settembre 2018

I limiti della visione. "Gli Ambasciatori" di Holbein

Hans Holbein il Giovane, Gli Ambasciatori, 1533, National Gallery di Londra.

“Gli Ambasciatori” di Hans Holbein il Giovane è una grande tavola, di circa due metri per lato, conservata alla National Gallery di Londra. Un dipinto molto famoso, soprattutto perché contiene uno dei primi casi di immagine anamorfica.
Su quest’opera si è scritto e si è dibattuto tantissimo, per identificare i due uomini ritratti nel quadro, per decifrare il significato di tutti gli oggetti presenti nella scena, e infine per cogliere il senso dell’opera. A questo link potrete trovare un’analisi minuziosa del dipinto in molti dei suoi aspetti, dall’identità dei due distinti diplomatici al significato simbolico degli strumenti posti sui due ripiani del mobile al centro, dal disegno della pavimentazione, che riprende quello del pavimento cosmatesco dell’Abbazia di Westminster, al simbolismo ad esso legato inteso come diagramma del Macrocosmo, fulcro della concezione rinascimentale dell'uomo e del sapere:
http://www.cultorweb.com/Holbein/H.html

Il dipinto è stato realizzato a Londra nel 1533, lo stesso anno del matrimonio tra Enrico VIII (presso la cui corte lavorava Holbein) e Anna Bolena, celebrato al culmine delle aspre dispute teologiche che avrebbero portato alla scissione definitiva della Chiesa Anglicana dalla Chiesa di Roma. Si ricordi, inoltre, che in quel periodo l’Europa era funestata dalle guerre di religione, seguite alla Riforma protestante e all’azione repressiva da parte del governo imperiale.
Jean de Dinteville, il personaggio a sinistra del quadro, è uomo diplomatico di punta di Francesco I, il re francese in lotta perenne con l’imperatore Carlo V. Georges de Selve (il personaggio a destra), suo amico, è un nunzio vaticano, punta diplomatica della Chiesa, che si distinse per la sua opera tesa alla conciliazione delle confessioni religiose. Il quadro, commissionato al pittore da Dinteville, racchiude pertanto anche un segreto politico, legato alla delicatissima missione di stato che i due diplomatici sono chiamati a svolgere nella Londra di quell’anno fatidico: evitare la rottura dell’Inghilterra con la Chiesa cattolica al fine di indebolire l’imperatore Carlo V sempre più aggressivo. Missione impossibile, destinata al fallimento, come testimoniano alcune tracce presenti nel quadro, ad esempio una corda del liuto spezzata, simbolo dell’armonia ormai definitivamente rotta.
Ma l’elemento più inquietante dell’opera è la grande macchia grigiastra di forma allungata, che vediamo sul pavimento, ai piedi dei due personaggi. La sua inafferrabilità è ancor più stridente a causa dell’esasperazione dell’effetto di realtà che caratterizza invece il resto della rappresentazione, cioè della meticolosa maestria con cui sono resi tutti gli oggetti e i dettagli, delle stoffe e degli arredi. Cos’è questa presenza misteriosa? Di cosa si tratta? Riportiamo, a tal proposito, un efficace brano di Jurgis Baltrušaitis:

«Il Mistero dei due Ambasciatori è in due atti ... Il primo atto comincia quando il visitatore entra dalla porta principale e vede davanti a sé, a una certa distanza, i due signori che si stagliano sul fondo della scena. Resta colpito dal loro atteggiamento ieratico, dalla sontuosità dell'insieme, e dal realismo intenso della raffigurazione. Un punto solo lo turba: lo strano oggetto che vede subito ai piedi dei due personaggi. Avanza per vedere le cose più da vicino: il carattere fisico, quasi materiale, della visione aumenta ancora quando si avvicina, ma quell'oggetto singolare resta assolutamente indecifrabile. Sconcertato, il visitatore esce dalla porta di destra, la sola aperta, ed eccoci al secondo atto. Quando sta per inoltrarsi nella sala attigua, gira la testa per dare un ultimo sguando al dipinto, e capisce tutto: per l'improvvisa contrazione visiva la scena scompare e viene fuori la figura nascosta. Dove, prima, tutto era splendore mondano, ora vede un teschio. I due personaggi, con il loro apparato scientifico, svaniscono, e al loro posto nasce dal nulla il segno del Nulla. Fine della rappresentazione» (Baltrušaitis, Anamorphoses, 1955).

Un teschio, dunque, un “memento mori”, simbolo canonico della caducità dell’uomo e delle sue conquiste. Un teschio in anamorfosi, cioè deformato in modo tale da poterlo riconoscere solo ponendosi da un’angolazione esterna, sul lato destro, oppure, osservandolo attraverso un vetro cilindrico, come ad esempio un bicchiere. Un’immagine, dunque, che si svela solo a determinate condizioni della visione.


La parola “anamorfosi” (dal greco “trasformazione”) indicava un particolare tipo di immagine prospettica ottenuta per proiezione su un piano fortemente inclinato rispetto all’osservatore (nella prospettiva tradizionale, il piano prospettico è perpendicolare all’asse ottico, mentre nelle anamorfosi ottiche tale piano è obliquo). Ciò causava una deformazione dell’immagine che risultava tanto più evidente quanto maggiore era l’inclinazione del quadro. Vista frontalmente appare distorta, e diventa leggibile solo se l’osservatore si dispone in una particolare posizione molto inclinata rispetto al piano pittorico, oppure quando l’immagine viene riflessa in specchi curvi, conici o cilindrici. Se l’occhio si pone nel punto di vista esatto, la deformazione scompare, lasciando il posto ad un’immagine perfettamente nitida e proporzionalmente precisa, nonché illusoriamente molto realistica.
Le regole fondamentali della prospettiva canonica prevedevano: che l’occhio e l’osservatore fossero in posizione frontale, cioè collocati sul piano parallelo al quadro, di modo che il punto di fuga doveva trovarsi all’interno della scena rappresentata; che il punto di distanza consentisse un angolo visivo inferiore a 90°; infine, che l’altezza dell’orizzonte corrispondesse a una statura normale (tre braccia circa). Invece, nella rappresentazione anamorfica, la posizione del punto di vista doveva essere spostata lateralmente, di modo che tutti i raggi visuali colpissero l’oggetto in modo obliquo (in tal caso, l’angolo visivo diveniva piccolissimo); il punto di distanza doveva essere vicinissimo al punto di fuga, quindi, l’osservatore doveva porre l’occhio al filo del quadro, per riuscire a ricostruire otticamente l’immagine. L’anamorfosi costituisce, perciò, l’estremizzazione della prospettiva lineare, che trasforma la visione oggettiva nel suo opposto: la visione impedita, la visione che richiede una chiave, la decifrazione di un segreto.



Questo tipo di immagini, dei quali troviamo i primi spunti nei Codici leonardeschi, ebbero larga diffusione nel XVI secolo. Come ebbero larga diffusione, soprattutto in Germania, i Vexierbilder, cioè i quadri a segreto, che presentavano enigmi, rebus simbolici più o meno oscuri. Però Gli Ambasciatori, afferma Omar Calabrese, “non è solo un gioco enigmistico destinato a stupire, bensì un vero e proprio esercizio teorico”. Calabrese, a questo proposito, sviluppa tutta una serie di livelli interpretativi dell’opera, da quello storico a quello politico, da quello strettamente pittorico a quello biografico e filosofico. “Il quadro – scrive lo studioso – si propone come enigma: nel punto canonico di visione (punto di costruzione della prospettiva) il quadro dà, per così dire, del «tu» allo spettatore, dato che lo pone come proprio fronteggiatore e come tale gli rivela minuziosamente la «verità» della pittura. Ma al tempo stesso il quadro sfida l’interlocutore proprio mentre lo fissa: gli nega, nel punto canonico, la decifrazione di un elemento. Così facendo, lo invita a giocare con lui. Gli si propone come terreno di scontro-incontro la cui posta è l’intelligenza del testo. Gli chiede di attivare nuove e più difficili competenze”.
Il dipinto intrattiene, pertanto, con lo spettatore uno strano rapporto: gli fa vedere e, nel frattempo, gli nasconde qualcosa, frustrando la pulsione scopica dello sguardo. Da un lato tratteggia una grandiosa natura morta, che mette insieme libri aperti di cui riusciamo addirittura a leggere il testo, sofisticati strumenti scientifici e musicali, cioè i simboli del sapere e della fede, resi attraverso minuziosi dettagli; e dall’altro nega la visione di un particolare in primo piano. E non solo di quello: nell’angolo in alto a sinistra, infatti, dietro la grande tenda tirata, che funge quasi da sfondo scenografico, emerge il lato di un crocifisso. Il teschio in primo piano richiama l’attenzione sulla transitorietà della vita e del mondo; il crocifisso ricorda che la vera sapienza è quella di Dio, e questa trascende i limiti del sapere umano.


Tirando le somme, cosa abbiamo alla fine? Due personaggi di potere, laico ed ecclesiastico, e di scienza, collocati in un ambiente che è la metafora visiva della summa del sapere e della cultura del tempo; un tempo, tra l’altro, che presenta una congiuntura storica alquanto critica per le sorti d’Europa, e dal punto di vista politico e da quello religioso. Ai piedi di questa sontuosa rappresentazione, l’immagine distorta di un teschio e, dietro una tenda, il particolare di un Cristo crocifisso parzialmente nascosto.
Il quadro si gioca sull’opposizione mostrare/nascondere, chiedendo allo spettatore di sforzarsi per cogliere ciò che è invisibile, cioè, l’invisibile verità che si cela dietro la superficie delle apparenze. Gli elementi che costituiscono il senso ultimo dell’opera sono infatti nascosti: il crocifisso da una tenda, il teschio da una deformazione ottica. Ciò che Holbein imprime nel quadro è una rete di segni che conduce alla vera realtà celata nel mondo. E questa è irrappresentabile, perché la pittura può solo rendere le apparenze delle cose, poi non può che arrendersi al silenzio, come al silenzio è condannato il liuto dalla corda spezzata. La pittura non potrà mai aprire quella tenda, perché oltre vi è ciò che non può essere rappresentato, che non può essere conosciuto dalla ragione e non può essere attinto dal sapere umano.
La rappresentazione deformata del teschio di Holbein (che tra l’altro, in tedesco antico, significa “osso incavato”) rappresenta a tutti gli effetti un limite per la visione umana e noi, in quanto spettatori, siamo chiamati ad osservarlo solamente lateralmente: la visione divina, invece, trascende del tutto i limiti umani di tempo e di spazio. Come dire che la verità e l'apparenza non appartengono allo stesso piano della visione, o comunque allo stesso punto di vista. Affinché il teschio divenga visibile, infatti, occorre che diventi invisibile (nel senso di non-visibile) tutto il resto.

Per una trattazione dell’opera dal punto di vista semiotico, vi segnalo il saggio di Omar Calabrese:
http://semiotica.uniurb.it/wp-content/uploads/2013/09/130-131-F-small.pdf
Per chi invece desidera approfondire lo studio, vi consiglio l’ultimo capitolo di questo testo:
https://core.ac.uk/download/pdf/14706794.pdf



Nessun commento:

Posta un commento