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sabato 2 giugno 2018
Vivian Maier. In the shadow
La storia di Vivian Maier ormai la conoscete tutti. Con grande abilità ne è stato costruito un mito pop, adatto alla nostra epoca così affamata di favole e leggende che nascono dal basso, che suggellano le storie anonime con il lieto fine della fama, che riscattano ciò che è sempre stato ai margini. La realizzazione del sogno di chiunque crede di celare nei propri cassetti un tesoro nascosto: l’evento fortuito e casuale che finalmente scopre e consegna alla gloria l’opera del proprio talento misconosciuto.
In questa operazione commerciale, il battage ha insistito molto sulla creazione del mito, sulla definizione dell’aura di questo personaggio, come portatore di un messaggio misterioso, inconsapevole interprete e testimone di un’epoca, rappresentante insigne sebbene ignoto del genere della street photography, ecc.
La verità è che Vivian Maier ci ha lasciato decine di migliaia di negativi, che rivelano uno straordinario talento: equilibrio e armonia delle composizioni, taglio delle inquadrature mai banale, resa della profondità, giusta illuminazione, capacità di cogliere i dettagli, di pre-visualizzare la scena e quindi di afferrare il momento giusto per lo scatto. Ma nulla più. Poche stampe, nessun’altra indicazione. Una vita silenziosa e appartata. Neanche una frase in grado di darci una qualche indicazione, una sua idea della fotografia o rivelarci il perché passasse tutto il tempo libero a riprendere frammenti di mondo.
La mia ipotesi, impossibile da dimostrare, è quella che Vivian Maier avesse la facoltà di pensare per immagini e di registrare le sue percezioni come fossero gli elementi di un archivio fotografico mentale, perfettamente catalogato e usufruibile come uno schedario costituito da foto. Che attraverso il fotografare costruisse quell’archivio, rispetto al quale la stampa successiva sarebbe stata del tutto superflua, visto che l’obiettivo non era quello di fare delle immagini un medium espressivo nei confronti degli altri. Che la macchina fotografica per la Maier avesse la funzione di mediare il suo personale rapporto con il mondo, e il fotografare fosse in questo senso una catalogazione mentale di volti, emozioni, oggetti, scorci, dettagli, una sorta di vocabolario fatto di immagini, attraverso cui conoscere e interpretare il mondo.
Il paradosso Vivian Maier risiede in questo: si è costruita l’opera di un autore come fenomeno massmediatico utilizzando fotografie che non erano state realizzate con la funzione di comunicare. Come la pubblicazione di un vero diario segreto. Un diario un bel po’ rimaneggiato, a dire il vero. Difficile dire se le selezioni pubblicate o portate in giro per le mostre di tutto il mondo rappresentino il “messaggio” di Vivian Maier. O se, piuttosto, ci troviamo davanti a una narrazione diversa, simile, ad esempio, a quelle che ricollocano in contesti nuovi le foto trovate nei mercatini o conservate negli archivi, anonime o realizzate per i fini più disparati: affettivi, commerciali, scientifici, ecc., conferendo loro una nuova funzione e un nuovo significato.
Ma, probabilmente, sotto questa luce sarebbe venuta meno l’aura del mito. Anche perché, a dire il vero, le fotografie della Maier si prestano benissimo a questa operazione mediatica di costruzione del personaggio, per via dei numerosissimi autoritratti rinvenuti, sia come riflessi su specchi e vetri, che sotto forma di ombra portata. Autoritratti che portano a interrogarsi sull’enigma irrisolvibile di questa donna, di questa vita, di questo sguardo impassibile, austero e perennemente sfuggente.
Da dove nasce quell’ossessione di collocarsi continuamente nella scena, di farne parte in qualche modo, di essere contemporaneamente soggetto e oggetto del proprio guardare?
Le fotografie in cui compare la sua ombra sono numerosissime: la sagoma scura spesso si allunga lungo tutto il frame come un maestoso interrogativo. Un libro e una mostra di sue fotografie hanno come titolo Vivian Maier: Out of the Shadows, ma io credo che Vivian Maier non sia mai uscita dall’ombra, che tutto il suo mistero continui a rimanere lì, condensato nella silhouette scura della sua figura avvolta da lunghi soprabiti e cappotti e da cappelli dalla larga falda.
Immergersi nella visione delle sue foto equivale a compiere un viaggio affascinante nello sguardo di una donna che probabilmente poteva entrare in contatto con la realtà solo attraverso la macchina fotografica, perché forse (almeno così piace pensare a chi scrive), senza quella mediazione, il mondo appariva a lei, solitaria e poco portata per le convenzioni sociali, incomprensibile e difficile da interpretare.
A questi link, la selezione di autoritratti in bianco e nero e a colori pubblicata nel sito a lei dedicato
http://www.vivianmaier.com/gallery/self-portraits/
http://www.vivianmaier.com/gallery/self-portraits-color/#slide-18
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