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martedì 1 agosto 2017

Selfie d'artista. L'autore nella scena


Il genere dell'autoritratto autonomo, cioè quel sottogenere del ritratto in cui l'autore ritrae se stesso come protagonista assoluto del dipinto, conosce un'affermazione abbastanza tardiva, collocandosi alle soglie dell'età moderna e come punto di arrivo di un processo di presa di coscienza di sé e del proprio ruolo da parte dell'artista che inizia secoli prima. Esiste, però, un cospicuo numero di opere pittoriche (e non solo) in cui l'autore inserisce nella historia, cioè in una scena narrativa di ambientazione sacra, storica o mitologica, il proprio autoritratto.
Si parla in questo senso di autoritratti “ambientati” o “situati”. Stoichita definisce questo tipo di rappresentazione, che l'autore fa di se stesso all'interno di una storia, “autoproiezione contestuale”: "chiamerò quindi “autoproiezione contestuale” la rappresentazione dell’autore inserita in un’opera di cui egli si dichiari, in un modo o nell’altro, l’artefice." (L’invenzione del quadro, Milano, il Saggiatore, 1998, p. 208).

La pratica dell'autoproiezione contestuale risale all'antichità. Un esempio giunto fino a noi è quello dell'autoritratto inserito da uno scultore egiziano in una scena di battaglia nei bassorilievi della tomba del visir Niankhmptah nel 2350 a.C. Nella sua Vita di Pericle, inoltre, Plutarco narra che il grande Fidia ebbe l'ardire di raffigurarsi sullo scudo di Atena Parthenos nel Partenone, tra i personaggi della battaglia delle Amazzoni, proprio accanto allo stesso Pericle, ma questo gesto fu considerato un atto presuntuoso, usato come pretesto per mandarlo in esilio. La narrazione dei fatti (che molto probabilmente non rispetta la verità storica) connota questa autorappresentazione in modo negativo, come ingiustificabile atto di hybris, di arroganza.

Rufillus di Weissenau, Autoritratto mentre minia il capolettera R, 1170-1190, Bibliothèque Bodmer, Genève

Di queste modalità di autoproiezione ne troviamo traccia anche nelle miniature medievali e in alcuni edifici sacri, dove non è rara la presenza di bassorilievi e busti raffiguranti le fattezze dell'artista, accompagnati spesso da iscrizioni in cui al nome dell'autore segue la locuzione “me fecit”. In alto vediamo la riproduzione di una miniatura, che rappresenta uno dei primi esempi conosciuti di autoproiezione contestuale. Si tratta di quello del monaco Rufillus di Weissenau, miniatore di un Légendaire del XII secolo, che rappresenta se stesso mentre sta ultimando il capolettera R.
Si tratta di meccanismi rappresentativi che hanno la funzione di firma, cioè di certificato della paternità dell'opera, oltre che strumento attraverso cui lasciare testimonianza durevole di sé. La loro legittimità, però, deriva dal loro rimanere in una posizione esterna o marginale, comunque poco visibile.
Man mano, però, gli artisti passano da una firma, sia calligrafica che figurata, esterna al dipinto (di solito apposta sulla cornice) a una più interna, benché il più delle volte trattenuta al margine. Attualmente si riconosce in questo processo la manifestazione della progressiva presa di coscienza, da parte dell'artista, di sé e del proprio ruolo sociale e culturale. Ritraendosi, l'autore dà visibilità e dignità alla propria persona fisica, esibendo il proprio status e mettendo in atto un meccanismo di identificazione, di autocelebrazione, di orgogliosa affermazione di sé: io ho fatto questo.
Nella società medievale l'artista era visto sostanzialmente come un artigiano, dedito alle arti meccaniche e al lavoro manuale, in posizione subordinata rispetto ai rappresentanti delle arti liberali, privo della nobiltà e dei riconoscimenti tributati all'ars poetica. Nel Quattrocento si assiste a un'inversione di tendenza e l'autoritratto pittorico, così come la firma, rivela il progressivo allontanamento dell’artista dal suo status di artigiano e la rivendicazione del suo ruolo intellettuale e creativo. In un primo momento, però, l'autoritratto autonomo rimane abbastanza raro e l'artista preferisce mantenere un legame con la scena che il committente gli ha incaricato di rappresentare. Il suo esibirsi nello spazio pittorico, pur rivelando un'acquisita e orgogliosa consapevolezza, resta tuttavia ancorato e confinato all'interno di una rappresentazione rispetto alla quale la sua figura rimane in secondo piano, marginale, poco visibile, quasi dissimulata.
Riprendendo grosso modo la catalogazione fatta dallo stesso Stoichita, mettendo da parte le autoproiezioni realizzate nel periodo medievale e soffermandoci sulle opere prodotte a partire dal Quattrocento, è possibile dividere questo tipo di rappresentazioni nei seguenti gruppi:
- l’autore mascherato: “il pittore recita la parte” di un personaggio presente in una historia. Nella maggior parte dei casi l'autore compare e prende parte alla scena come uno degli astanti, in genere in posizione marginale o laterale. Generalmente l’autoritratto è identificabile per via di alcuni indizi pertinenti alla retorica stessa dell’immagine: guarda in direzione dello spettatore o presenta una fisionomia ben caratterizzata. La posizione marginale caratterizza soprattutto le composizioni rinascimentali, mentre nel Seicento l'autoritratto mascherato emergerà dalla moltitudine e acquisterà una posizione di preminenza, da protagonista. L’esempio limite di tale procedimento sarà offerto dal Davide con la testa di Golia di Caravaggio: l'autore donerà qui le sue fattezze a uno dei protagonisti della scena e il suo autoritratto acquisterà il centro dell’intera composizione
- l’autore–visitatore: rispetto all’autoritratto mascherato, “l’autoritratto da visitatore” segna un passo avanti sulla via della coscienza di sé da parte dell'autore. L'artista, infatti, non veste i panni di uno dei personaggi della scena e non prende parte all'evento rappresentato, ma evidenzia la propria estraneità e il proprio ruolo di artefice dell'opera. La sua figura si colloca in uno spazio al di fuori dei confini dentro i quali avviene la narrazione, magari su una cornice o in uno spazio adiacente a quello pittorico, oppure si differenzia dagli altri personaggi tramite vari elementi distintivi, come l'abbigliamento o la presenza di cartigli che lo indicano quale autore dell'opera. Gli esempi più caratteristici sono alcuni dipinti  di Dürer.
- l’autore in autoritratto riportato: in questi casi l’artista figura all’interno della propria opera non in veste di personaggio o di visitatore, bensì come “ritratto”, accompagnato, come nel caso degli autoritratti di Dürer, dalla firma dell'autore.

Questi inserimenti autoriali svolgono, in un modo o in un altro, funzione di firma, figurata e autocelebrativa.
Queste autoproiezioni presentano più o meno delle caratteristiche comuni:
- innanzitutto lo sguardo eterodiretto, cioè rivolto altrove rispetto a quello degli altri personaggi. Nella maggior parte dei casi si indirizza verso lo spettatore, evidenziando il suo ruolo di mediatore oltre che artefice dell'opera: “l'artista si rende riconoscibile proprio attraverso lo sguardo che rivolge allo spettatore e che spezza la chiusura diegetica della storia. Così l'artista segnala appunto il suo essere diverso, presente alla vicenda narrata, ma anche estraneo, interno ma esterno, e di questa condizione eccentrica e sospesa rende partecipe il pubblico, lo spettatore della sua epoca e di quelle successive”. (M. Corgnati, I quadri che ci guardano)
- la posizione marginale o laterale rispetto al fulcro della rappresentazione.

L'autore mascherato
Prendiamo ora in considerazione qualche esempio di autoritratto appartenente al primo gruppo, quello dell'autoritratto mascherato. Si tratta di autoproiezioni inserite in scene in cui, in linea di principio, non potrebbero trovarsi, perché appartenenti a differenti epoche storiche. Quelli rappresentati, infatti, sono eventi biblici, sacri o mitologici. Questi autori inseriscono la propria immagine nello spazio della rappresentazione o della narrazione, presentandosi come spettatori, come testimoni di un evento al quale in realtà non hanno potuto prender parte, creando in questo modo un'interferenza temporale.
Giorgio Vasari riportò notizia di alcuni autoritratti eseguiti da Giotto all'interno di narrazioni corali: al Castello Nuovo di Napoli, a Gaeta in alcune scene del Nuovo Testamento, mentre a Firenze si sarebbe ritratto accanto a Dante nella cappella del palazzo del Podestà. Questo che vediamo in foto è invece un dettaglio del Giudizio universale, databile al 1306 circa e facente parte del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova. Giotto inserì il suo autoritratto di profilo in primo piano nella schiera dei beati.

Giotto, Il Giudizio Universale, Particolare, 1303-06, Cappella degli Scrovegni, Padova


Sempre di profilo è questo autoritratto ambientato collocato dal pittore Agnolo Gaddi nel suo affresco  Il trionfo della Croce, nella Cappella Maggiore della Basilica Santa Croce, a Firenze.


Agnolo Gaddi, Leggenda della Vera Croce, 1380-90, Cappella Maggiore di Santa Croce, Firenze


Nella foto seguente abbiamo la riproduzione di un affresco eseguito da Masaccio e Filippino Lippi per la Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze, La Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra.  Nel gruppo all'estrema destra, tra i ritratti di Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi e Masolino, ritratti di profilo, possiamo notare l'autoritratto di Masaccio, girato a guardare lo spettatore (d'ora in poi sarà quasi sempre questo il tratto distintivo degli autoritratti ambientati).


Masaccio e Filippino Lippi, Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra, 1427-1485, Basilica di Santa Maria del Carmine (Cappella Brancacci), Firenze.


Degno di nota è il ritratto "situato" che Benozzo da Gozzoli inserisce nel suo capolavoro, il ciclo di affreschi della Cappella dei Magi, all'interno di palazzo Medici Riccardi a Firenze. Del ciclo fa parte la celebre Cavalcata dei Magi: in un paesaggio di gusto quasi tardogotico, dietro il corteo in cui figurano i rappresentanti delle maggiori casate del tempo - Medici, Malatesta, Sforza -, nel gruppo rappresentato dai letterati e dai filosofi, insieme a Luigi Pulci e Marsilio Ficino, Benozzo inserisce il proprio ritratto, riconoscibile perché guarda verso lo spettatore e per la chiara firma sul tessuto del cappello rosso: Opus Benotii.

Benozzo Gozzoli, Cavalcata dei Magi, 1459-62, Palazzo Medici Riccardi, Firenze.


Questa è invece la Pala Barbadori di Filippo Lippi, che ricorse spesso alle autoproiezioni contestuali nelle sue opere. Il suo autoritratto è appena visibile sul margine sinistro, in secondo piano.


 Filippo Lippi, Pala Barbadori, 1438, Louvre, Paris

Per la cattedrale di Santa Maria Assunta, A Spoleto, Filippo Lippi realizzò un ciclo di affreschi, dedicato alle Storie delle Vergine, di cui vediamo un dettaglio.


Filippo Lippi, Dormitio Virginis, Da Storie della Vergine, 1466-69, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Spoleto


L'Incoronazione della Vergine, nota anche come Incoronazione Maringhi, è una pala d'altare che il Lippi realizzò tra il 1439 e il 1447 circa, oggi conservata alla Galleria degli Uffizi di Firenze.

Filippo Lippi, Incoronazione della Vergine, 1439-47, Uffizi, Firenze

Le Storie della Vera Croce sono un ciclo di affreschi che ricopre le pareti della cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo. Iniziato da Bicci di Lorenzo, venne dipinto e completato soprattutto da Piero della Francesca, tra il 1452 e il 1466. Le Storie narrano alcuni avvenimenti che vanno dalla Genesi fino all'anno 628, quando il Crocifisso, dopo essere stato rubato, venne riportato a Gerusalemme. Le fonti delle Storie sono la Bibbia e la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, scritta tra il 1224 e il 1250. Ne L'ncontro tra Salomone e la Regina di Saba, l'autore inserì il proprio autoritratto nel gruppo di personaggi al seguito di re Salomone.

Piero della francesca, Storie della vera Croce, L'ncontro tra Salomone e la Regina di Saba, affresco, 1452-66, Basilica di San Francesco, Arezzo.

Piero della Francesca eseguì altri autoritratti ambientati. Uno dei più noti è quello presente nel Polittico della Misericordia, dove l'autore si ritrae come uno dei fedeli, in posizione di preghiera, protetti dall'ampio mantello della Vergine.

Piero della Francesca, Polittico della Misericordia, 1444-64 (Sansepolcro, Museo civico)

Abbiamo già detto che una delle ragioni che determinò lo sviluppo dell'autoritratto fu il passaggio dello status dell'artista da una dimensione meramente tecnico-artigianale ad una più marcatamente creativa e culturale. Per secoli infatti gli artisti si erano ed erano stati considerati appartenenti ad una classe sociale di artigiani, dedita al lavoro manuale più che a un'attività di ordine intellettuale. Tuttavia, a partire dal XIII secolo, si poté assistere a un progressivo avvicinamento fra artisti ed intellettuali, come nel caso di Simone Martini, divenuto amico del Petrarca o di Giotto, citato dal Boccaccio nel Decamerone. Nel Quattrocento molti pittori furono anche prestigiosi matematici, come Piero della Francesca, o scienziati, come Leonardo da Vinci. Il loro prestigio si accrebbe notevolmente, permettendo all'artista del Rinascimento di conquistare una posizione sociale di tutto rispetto. Questo spiega la diffusione della prassi di apporre la propria firma sui dipinti prodotti, accompagnandola spesso col proprio autoritratto, attirando in questo modo l'attenzione, oltre che sull'opera, anche sul suo autore, il quale esibiva e confermava in questo modo il proprio status sociale e culturale. E' questo il periodo in cui prende forma la nozione moderna di “personalità artistica”, che comporta, da parte del pittore, l'acquisizione della consapevolezza della dimensione individuale della propria arte e del suo ruolo nella società.
D'altra parte, la figura e il volto dell'artista cominciarono a suscitare interesse anche dell'élite culturale del tempo: Vasari ad esempio scrisse le Vite impostandole come una sequenza di ritratti, preoccupandosi di corredarle proprio con le effigi dei pittori di cui scrisse la biografia e descrisse le opere.
D'altra parte la centralità cosmica che la cultura umanista attribuiva all'uomo aveva notevolmente accresciuto l'interesse dell'arte per il volto umano, per i suoi tratti fisionomici e per le sue molteplici espressioni e sfumature, con un conseguente incremento della produzione di ritratti e, di conseguenza, di autoritratti.
Un caso singolare, e sofisticato, di pratica della firma figurata è costituito da Andrea Mantegna. La ritroviamo in diverse occasioni, come ad esempio nel ciclo di affreschi della cappella Ovetari della chiesa degli Eremitani a Padova (1450 ca.), nella Presentazione al Tempio del 1454 e nella Camera degli sposi Camera picta (realizzata nel Castello di San Giorgio di Mantova tra il 1465 e il 1474).
Si è in genere concordi nel considerare la Presentazione al Tempio, conservata a Berlino, un quadro votivo (e pertanto destinato alla sfera privata), dipinto da Mantegna dopo la nascita del suo primogenito. Nelle due figure poste alle estremità si suole riconoscere l'autoritratto del pittore e il ritratto della moglie, Nicolosia Bellini. Ma si notino le caratteristiche di questi due personaggi: innanzitutto i loro visi sono nettamente più piccoli di quelli delle figure dei santi; inoltre essi non guardano verso il centro dell'opera, ma hanno entrambi una direzione laterale, che li isola dalla scena.
Si noti inoltre la cornice dipinta, dall'aspetto marmoreo, che circonda il dipinto e che crea una sorta di filtro tra lo spazio pittorico e quello reale. L'artificio di far appoggiare i personaggi su questa cornice, come fosse il telaio di una finestra, permette di creare un'illusoria contiguità tra i due spazi.

Andrea Mantegna, Presentazione al tempio, 1455, Gemäldegalerie, Berlino.

Questa è invece la Presentazione al Tempio del cognato Giovanni Bellini. Si è soliti collocare temporalmente quest'ultima dopo quell'altra, dalla quale il Giambellino avrebbe ripreso l'impostazione in maniera molto fedele.
Probabilmente entrambe le opere sono legate a eventi familiari. Infatti, anche nella versione del Bellini, nei personaggi ai lati si suole identificare i membri della sua famiglia. In particolare, l'uomo all'estrema destra che guarda lo spettatore è proprio lo stesso autore.
Rispetto alla versione del Mantegna, più ieratica e austera, questa del Bellini è caratterizzata senza dubbio da una maggiore vivacità e morbidezza dei passaggi cromatici, che conferiscono più distensione e umanità alla narrazione, sottolineate dalla mancanza delle aureole.
Al posto della cornice marmorea, Bellini utilizza solo una balaustra, avvicinando così i personaggi allo spettatore. Ma l'influenza degli studi del Mantegna sulla prospettiva è ben evidente: le braccia dei personaggi centrali e il Bambino così appoggiati al davanzale, infatti, costituiscono un efficace elemento di misura della profondità dello spazio.


Giovanni Bellini, Presentazione di Gesù al Tempio, particolare, 1470 circa, Venezia, Fondazione Querini Stampalia.

La Camera picta, conosciuta anche come Camera degli Sposi, è una stanza collocata nel torrione nord-est del Castello mantovano di San Giorgio ed è celebre per il ciclo di affreschi che ricopre le sue pareti, capolavoro di Andrea Mantegna, realizzato tra il 1465 e il 1474 e che rappresenta una celebrazione politico-dinastica dell'intera famiglia di Ludovico Gonzaga, signore di Mantova, in occasione dell'elezione a cardinale di Francesco Gonzaga.
Le finte architetture e l'illusionismo pittorico creano una raffinata finzione scenica, che amplia la percezione del piccolo ambiente. Lo sguardo dell'osservatore viene via via guidato verso l'alto, oltre le decorazioni della volta, i finti bassorilievi a tema mitologico e i ritratti in medaglione di otto imperatori romani, fino al tondo centrale, dove trionfa il celebre oculo prospettico: da una balconata, sempre dipinta, si affacciano una dozzina di putti, un pavone, un cesto di agrumi in precario equilibrio e figure umane che scrutano in basso, verso l’osservatore: una dama di corte, accompagnata dalla serva di colore, e un gruppo di tre fanciulle, una delle quali ha in mano un pettine.Nella nuvola vicino al vaso si trova nascosto un profilo umano, probabile autoritratto dell’artista abilmente mascherato. Mantegna era infatti abile a nascondere volti umani nelle nuvole vaporose, come nell'opera “San Sebastiano” (1456-57) o nella “Minerva scaccia i Vizi dal Giardino delle Virtù” (1502).
Ma il profilo appena visibile dell'oculo non è il solo autoritratto lasciato da Mantegna nella Camera Picta. Dissimulato nella finta tappezzeria della parete ovest, infatti, si può vedere il volto del pittore, realizzato a monocromo e nascosto nel fogliame del finto pilastro che separa la scena con la targa dedicatoria da quella dell'incontro.
Non si tratta di un ritratto ambientato vero e proprio, ma testimonia comunque la volontà da parte dell'artista di lasciare un segno di sé e della propria dignità autoriale.

Andrea Mantegna, Camera degli Sposi (o Camera picta), 1465-74, Castello di San Giorgio, Mantova.


Nella Disputa di Simon Mago e crocifissione di san Pietro, invece, vediamo Filippino Lippi, figlio di Filippo, nel margine destro del dipinto, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore.


Filippino Lippi, Disputa di Simon Mago e crocifissione di san Pietro, Dettagli, 1482-85, Basilica di Santa Maria del Carmine (Cappella Brancacci), Firenze - Public Domain via Wikipedia Commons

Il Ghirlandaio inserì il proprio autoritratto in molte sue opere. Questo è uno dei dipinti che decorano la Cappella Tornabuoni, la cappella maggiore della basilica di Santa Maria Novella a Firenze. Gli affreschi hanno come tema le "Scene della vita della Vergine e di san Giovanni Battista", inquadrate da finte architetture in prospettiva. Si tratta di uno dei più vasti cicli di affreschi di tutta la città, interamente progettato e disegnato dal Ghirlandaio ed eseguito dalla sua bottega dal 1485 al 1490, su committenza della famiglia Tornabuoni.
Qui lo vediamo raffigurato all'estrema destra del dipinto, insieme ad altri personaggi. La sua figura si distingue perché fissa lo spettatore.


Domenico Ghirlandaio, Cacciata di Gioacchino dal tempio, Dettagli, Cappella Tornabuoni, 1486-1490, Santa Maria Novella, Firenze

Il Ghirlandaio è anche l'autore del ciclo di affreschi contenuto nella Cappella Sassetti, in Santa Trinità a Firenze. In almeno due di essi compare un suo autoritratto.


Domenico Ghirlandaio, Affreschi della Cappella Sassetti, Resurrezione del ragazzo, 1479-85, Dettagli, Santa Trinità, Firenze.

Domenico Ghirlandaio, Adorazione dei pastori, 1479-85, Cappella Sassetti, Basilica di Santa Trinità, Firenze


E ancora vediamo la sua immagine nell'Adorazione dei Magi degli Innocenti, un dipinto a tempera conservato nella Galleria dello Spedale degli Innocenti a Firenze.

Domenico Bigordi detto il Ghirlandaio, Adorazione dei Magi, 1488 ca, Galleria dello Spedale degli Innocenti, Firenze

Gli esempi di autoritratto "situato" nel Rinascimento sono innumerevoli. Ce ne hanno lasciato ampia testimonianza anche autori come Botticelli, il Sodoma, Raffaello.
Questa in basso è la celebre pala d'altare dipinta da Botticelli su commissione del ricco banchiere, e cortigiano dei Medici, Gaspare di Zanobi del Lama, oggi conservata agli Uffizi.
In questo dipinto il pittore ritrae i membri della famiglia de' Medici e dei loro alleati, il committente, l'élite intellettuale di corte, tra cui Pico della Mirandola e Agnolo Poliziano, e, sul lato destro, ritrae anche se stesso, avvolto da un ampio e prezioso mantello e con lo sguardo rivolto allo spettatore.
E' il trionfo del nuovo status dell'artista e del riconoscimento della propria dignità intellettuale.

Sandro Botticelli, Adorazione dei Magi, 1475 ca., Galleria degli Uffizi, Firenze.


Nel ciclo di affreschi delle Storie di san Benedetto di Monte Oliveto Maggiore, realizzato da Luca Signorelli e dal Sodoma, quest'ultimo inserisce il proprio autoritratto in vesti da cavaliere, questa volta ben al centro della scena:

Il Sodoma,  San Benedetto ripara miracolosamente il setaccio rotto dalla sua balia Cirilla, Da Storie di san Benedetto, 1505 ca., Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Asciano

Raffaello ci ha lasciato in più occasioni il proprio autoritratto ambientato (ad esempio, secondo alcuni studiosi, ne Il Parnaso, ne La cacciata di Eliodoro e nella Messa di Bolsena). Sicuramente il più famoso è quello che l'artista colloca tra i filosofi, matematici e astronomi che affollano La Scuola di Atene. Non molto distante, sulla scollatura della tunica di Euclide, il personaggio chinato a tracciare su una tavoletta una figura geometrica con il compasso, Raffaello ha anche lasciato le sue iniziali: "RVSM": "Raphaël Urbinas Sua Manu". Il legame tra firma figurata e firma testuale in questo caso è meno evidente e più sottile.

Raffaello, La Scuola di Atene, Particolare, 1509-11, Stanza della Segnatura, Roma, Musei Vaticani – Public Domain via Wikipedia Commons.

Questa pratica aveva un chiaro significato ideologico:
«In tal modo gli artisti vengono a far parte della cerchia dei dotti, e le arti plastiche, considerate “meccaniche”, assurgono allo stesso piano delle “arti liberali”, rivelando così una nuova, più orgogliosa e consapevole affermazione della dignità intellettuale del lavoro artistico [che] quindi non si limita alla sola traduzione in forme visibili, ma sottende un lavoro mentale una ricerca dell'”idea”» (Lucia Impelluso, L’autoritratto, in Stefano Zuffi (a cura di), Il ritratto).
Il pittore, infatti, è diventato l’alter ego del personaggio storico o allegorico, presenziando nella sua stessa rappresentazione e partecipando al dibattito dei grandi pensatori, ribadendo così la nuova, orgogliosa autoaffermazione di dignità intellettuale dell’artista moderno.
Probabili autoritratti li troviamo anche in due capolavori del manierismo, le Deposizioni di Pontormo e Bronzino:



Paolo Veronese, tra il 1560 e il 1570 realizza la serie delle “Cene”, composta da enormi tele che rappresentano episodi evangelici in cui Cristo o i suoi discepoli sono riuniti in circostanze conviviali. In due di queste tradizionalmente è ravvisata la presenza dell'autoritratto dell'autore. Ne Le nozze di Cana, in primo piano ed esattamente al centro del dipinto, nella posizione quindi più prossima all’osservatore, troviamo la geniale invenzione con cui l’artista firma e sottoscrive l’esecuzione dell’opera: un quartetto di musicisti accompagna il banchetto. Agli strumenti i maggiori rappresentanti dell'arte pittorica veneta. Alla viola lo stesso Paolo Veronese, al violoncello Tiziano, al violino Tintoretto, al flauto Jacopo Bassano.


Paolo Veronese, Le nozze di Cana, Parigi, Louvre, 1563.


Anche in Cena a Casa di Levi, il Veronese ambienta un episodio evangelico in uno sfarzoso banchetto della Venezia del Cinquecento. Questo dipinto ebbe, però,  una storia alquanto travagliata. Il tema originario, infatti, doveva essere quello dell'Ultima cena, ma la realizzazione del pittore veneto, affrontata in modo fortemente innovativo, non fu apprezzata dall'organo della Santa Inquisizione. Chiamato ad esporsi di fronte al tribunale del Sant'Uffizio nel luglio del 1573, il pittore difese strenuamente le proprie scelte di artista. Alla fine, piuttosto che eliminare le figure contestate dell'opera (personaggi certamente non previsti nella canonica Ultima cena e alquanto disinteressati all'evento sacro), il Veronese preferì cambiare nome al dipinto. Anche in questo, in posizione preminente, troviamo il suo autoritratto in un elegante vestito verde.


Paolo Veronese, Cena a casa di Levi, 1573, Gallerie dell'Accademia, Venezia.

Anche Michelangelo ci ha lasciato delle autoproiezioni ambientate celate nei suoi dipinti. Pare addirittura che la Cappella Sistina e la Cappella Paolina siano disseminate di autoritratti del Buonarroti. Il più bizzarro è sicuramente quello nascosto nel Giudizio Universale, nella pelle (nel senso letterale del termine) di San Bartolomeo, secondo la tradizione morto scuoiato. Il santo viene mostrato con le sembianze di Pietro Aretino, nell'atto di reggere la sua pelle: evidente è però la differenza di sembianze fra il santo e quest'ultima, che infatti cela l'autoritratto anamorfico del pittore. Secondo la tradizione, la scena alluderebbe alla vicenda che vide l'Aretino accusare Michelangelo di omosessualità in seguito a risentimenti personali, dovuti al fatto che l'artista non l'avesse accettato quale consulente nella realizzazione del Giudizio.

Michelangelo, particolare del Giudizio Universale, 1536-41 (Città del Vaticano, Cappella Sistina)

C'è chi ha contato oltre venti autoritratti, inseriti da Caravaggio nelle scene dei suoi capolavori, a partire da quel Bacchino malato dipinto dall'artista appena uscito dall'Ospedale della Consolazione a Roma intorno ai 23-24 anni. Alcuni di questi possono essere considerati degli autoritratti ambientati, nelle vesti di personaggi marginali presenti sulla scena. E' questo il caso, per fare alcuni esempi, del Martirio di San Matteo, della Cattura di Cristo nell'orto o del Martirio di Sant'Orsola.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Martirio di San Matteo, 1600-1601, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma.

Nel Martirio di San Matteo, l'autore si raffigura come uno degli astanti che fuggono inorriditi davanti all'omicidio del santo da parte del suo carnefice, rappresentato come uno dei tanti omicidi che avvenivano per strada. A una prima occhiata ci accorgiamo però subito della differenza che caratterizza questo autoritratto rispetto a quelli visti finora: l'artista non guarda lo spettatore per evidenziare il proprio ruolo di autore e di mediatore tra l'evento e l'osservatore, né reca in mano cartigli con la firma. La sua espressione, piena di pathos, è quella di un personaggio che partecipa emotivamente e profondamente all'evento rappresentato, come uno degli attori della scena teatrale che recita la propria parte fino in fondo.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Cattura di Cristo, 1602, National Gallery of Ireland, Dublino.

Se i vari Ghirlandaio, Filippo Lippi, Botticelli, Raffaello, attraverso lo sguardo, e altri espedienti, mettevano in luce il proprio ruolo di narratore, facendo intersecare la temporalità dell'enunciato con quella dell'enunciazione, mettendo in scena sia l'evento che alcuni riferimenti alla sua stessa realizzazione, nelle opere di Caravaggio questo elemento metapittorico sembra del tutto assente. Se l'autoritratto ambientato di cui si è parlato fin qui portava avanti soprattutto una riflessione sulla condizione sociale e culturale del suo autore, allo scopo di dare visibilità e dignità alla sua persona fisica e alle sue ambizioni e istanze morali, nei volti cui il Caravaggio conferisce le proprie fattezze si sente una forza, per così dire, "espressionista", ancorata al proprio drammatico tracciato autobiografico.
Si ricordi che per l'uccisione di Ranuccio Tomassoni, Caravaggio era stato condannato alla pena della decapitazione, sentenza che ognuno poteva eseguire ed essere per questo anche ricompensato. E' singolare, da questo punto di vista, che in molti autoritratti Caravaggio si sia ritratto nelle fattezze di un personaggio decapitato: Oloferne, Giovanni Battista, Golia. In questi dipinti si rappresenta sempre come vittima col capo reciso, quasi a voler mettere in scena la propria punizione e l'espiazione di una vita turbolenta e tormentata. E il personaggio del quale assume la parte non è la figura marginale di un astante, ma uno dei protagonisti della scena.

1. Davide con la testa di Golia (1607), 2. Salomé con la testa del Battista (1607-10), 3. Giuditta e Oloferne (1599-1600), 4. Davide e Golia (1600 ca.), 5. Salomé con la testa del Battista (1609 ca.), 6. Davide con la testa di Golia (1609-10)

L'autore-visitatore
Fin qui abbiamo visto degli esempi di autoritratti ambientati in cui l'autore compare all'interno dello spazio pittorico, solitamente in veste di testimone, personaggio più o meno integrato nel gruppo di astanti presenti sulla scena e dunque inserito nella stessa temporalità dell'opera. A parte la posizione marginale e lo sguardo orientato verso lo spettatore, non presenta altri elementi rilevanti di distinzione. Vediamo ora alcuni casi in cui l'autore è esterno alla scena, rivelando la propria funzione di artefice dell'opera.
Prima di proseguire, soffermiamoci un istante sul concetto di temporalità di un'opera d'arte.
Un dipinto è solitamente interessato da tre diverse temporalità: il “tempo dell'enunciato”, cioè il tempo del soggetto rappresentato (più o meno determinabile: può essere un tempo storico ben preciso, quello in cui è accaduto l'evento raffigurato, o un tempo mitico, ecc.), il "tempo dell'enunciazione" (quello in cui il pittore realizza il dipinto) e il tempo della visione da parte dello spettatore, cioè quello in cui l'opera viene guardata.
Di solito il tempo dell'enunciazione rimane invisibile, in quanto predomina il tempo dell'enunciato, cioè il tempo che caratterizza il contenuto, l'evento rappresentato. Tuttavia, anche la pittura ha i suoi modi di evidenziare i suoi tempi di produzione. La firma dell'autore, ad esempio, apposta direttamente dentro l'enunciato, cioè all'interno dello spazio pittorico, manifesta apertamente il tempo dell'enunciazione. E questo vale anche per l'inserimento, da parte del pittore, della propria immagine più o meno all'interno dello spazio pittorico.
Vediamo ora alcuni esempi in cui l'autore, tramite lo sguardo, la posizione, l'abbigliamento o altri segni distintivi, si rappresenta come personaggio del tutto estraneo alla scena, appartenente a una temporalità diversa da quella dell'evento rappresentato.
In questo gruppo si potrebbero includere questi due trittici di provenienza fiamminga. Questo è il celebre Trittico di Mérode di Robert Campin, il famoso Maestro di Flémalle, raffigurante l'episodio dell'Annunciazione.
Come si può notare, l'autoproiezione contestuale dell'autore è relegata in uno spazio marginale, nel pannello di sinistra e in secondo piano. Le sue dimensioni, rispetto agli altri personaggi, sono nettamente ridotte, come a rendere evidente una inferiorità gerarchica. Più che prendere parte alla scena, il suo ruolo è più quello del visitatore estraneo.


Robert Campin, Trittico di Mérode, 1427, Metropolitan Museum, New York.

Anche in questo Trittico di Hans Memling, l'autore ha inserito il proprio autoritratto in una posizione alquanto deferente e marginale, comunque esterna alla narrazione:

Hans Memling, Trittico Donne, 1475 ca., National Gallery, Londra.

Nelle opere del tedesco Albrecht Dürer c'è un ulteriore salto di qualità, perché l'autoritratto acquista un'esplicita funzione di firma e dunque di affermazione autoriale. Dürer ricorse a questo artificio quasi con ossessione, nascondendo spesso un autoritratto dentro le proprie opere e marcando questa presenza mediante cartigli o bandierine su cui è scritto il suo nome e a volte anche l'anno di realizzazione. Un famoso esempio è Il martirio dei diecimila. Qui, nel bel mezzo di uno scenario concitato e raccapricciante, raffigurante il martirio dei diecimila soldati cristiani avvenuto sul monte Ararat (Armenia) da parte dell'esercito del re persiano Sapore I e su ordine di Adriano e Antonino Pio, tra scene di crocifissioni, decapitazioni, lapidazioni e percosse, compare l'autoritratto del pittore, vestito con abiti propri del suo tempo e non di quello dell'evento narrato. E' in compagnia di un amico e con una mano regge una sorta di bandiera recante la scritta "Iste fatiebat Ano Domini 1508 Albertus Dürer Aleman" e nel frattempo rivolge lo sguardo verso lo spettatore.
Attraverso questi artifici, il tempo di enunciazione, cioè il tempo che appartiene all'atto della realizzazione del dipinto (diverso dal tempo dell'evento rappresentato), è ben visibile e manifesto. Inoltre, quando lo sguardo dell'enunciante, cioè dell'autore, incontra quello dell'osservatore, accade un altro evento: a causa della reciprocità dell'interazione, il tempo dell'enunciazione si trasforma in un continuo presente che si interseca con il presente dello spettatore.

Albrecht Dürer, Martirio dei diecimila, 1508, Kunsthistorisches Museum, Vienna.

Anche in quest'altra opera di Dürer, commissionata dal tedesco Jacob Fugger, l'autoritratto rende manifesta la temporalità dell'artista. Egli si raffigura sul margine destro, appoggiato a un albero, mentre regge un cartiglio su cui sta scritto: "Exegit quinque mestri spatio Albertus Durer germanus 1506". Il tempo di realizzazione è addirittura esplicitamente dichiarato: cinque mesi di lavoro sono occorsi per completare il dipinto.

Albrecht Dürer, Festa del Rosario, 1506, Národní Galerie, Praga.

Anche in quest'altro dipinto di Albrecht Dürer, l'Adorazione della Santissima Trinità, o Altare Ladauer, la firma, in basso a destra, è associata all'autoritratto dell'autore, che tiene in mano una tabella con su scritto: "ALBERTUS DURER NORICUS FACIEBAT ANNO A VIRIGINIS PARTU 1511".
In questo caso è evidente come l'autoritratto occupi non solo una diversa dimensione temporale, ma anche spaziale. Più che vestire i panni del "testimone", la sua presenza si qualifica, molto più esplicitamente, come quella del "presentatore".


Albrecht Dürer, Adorazione della Santissima Trinità, 1511, Kunsthistorisches Museum, Vienna.

Nella veste di presentatore, esterno alla scena, si presenta anche Luca Signorelli in questo incredibile affresco che decora la cappella di San Brizio, o cappella Nova, del duomo di Orvieto. Si tratta della Predica dell'anticristo, il primo affresco del ciclo Storie degli ultimi giorni, avviato da Beato Angelico e Benozzo Gozzoli nel 1447 e completato dal Signorelli nel 1499-1502.
Nel margine sinistro notiamo due personaggi in abito nero che, secondo la tradizione, ritraggono lo stesso Signorelli e, dietro di lui, Beato Angelico con l'abito domenicano. La sua presenza è fuori dalla scena vera e propria. Con i personaggi del dipinto non condivide né lo spazio né il tempo. Il suo ruolo è proprio quello del presentatore, o meglio del creatore che espone la propria opera a un pubblico.



Luca Signorelli, Predica e fatti dell’Anticristo, 1500-02, Cappella di San Brizio (Cappella Nuova), Duomo di Orvieto

Un'impressione analoga si ricava da uno dei teleri della Scuola di Sant'Orsola di Vittore Carpaccio Arrivo degli ambasciatori inglesi alla corte del re di Bretagna. Secondo alcuni critici (Pallucchini, Carpaccio, Le Storie di Sant'Orsola, Milano, 1958), il personaggio in toga rossa, appoggiato a una colonna, nel margine sinistro del dipinto, non è altro che il ritratto dello stesso pittore. In questo telero, come negli altri del ciclo, è evidente come il Carpaccio attinga a strutture narrative e scenografiche della rappresentazione teatrale. Nel teatro rinascimentale era presente la figura del festaiolo o didascalos, che aveva la funzione di richiamare l'attenzione dello spettatore, di presentare e commentare le rappresentazioni, delle quali sottolineava i passaggi più significativi. L'autoritratto dell'autore sembra in questo dipinto svolgere la medesima funzione narrativa.


Vittore Carpaccio, Arrivo degli ambasciatori inglesi alla corte del re di Bretagna, 1495 ca., Gallerie dell'Accademia, Venezia.

Meno raffinata, ma più possente, è senza dubbio la presenza dell'autore nella Pala dell'Allegoria dell'Immacolata  Concezione di Girolamo Mazzola Bedoli, commissionata dalla confraternita della Concezione, presso la chiesa di San Francesco del Prato a Parma. L'uomo in primo piano, seduto sulla balaustra, viene tradizionalmente identificato con lo stesso pittore, che fissa lo spettatore mentre con la mano gli indica il centro della scena. 


G. Mazzola Bedoli, Pala dell'Immacolata, 1533-1538, Galleria Nazionale, Parma.

L'autore in autoritratto riportato
Ancora più complesso è l'espediente cui ricorrono prima il Perugino negli affreschi del Cambio di Perugia e, poco dopo, il Pinturicchio nell'Annunciazione di Santa Maria Maggiore a Spello. 
La Sala delle Udienze del Collegio del Cambio a Perugia era il salone principale, centro delle attività e delle riunioni, della Corporazione del Cambio locale. Il Perugino ebbe l'incarico di affrescarne le pareti e la volta.
Su un pilastro intermedio della parete sinistra, accanto alla rappresentazione delle Virtù della Prudenza e della Giustizia, si trova un quadro appeso con effetto trompe-l'oeil. Si tratta di un autoritratto del pittore, che sormonta una targa recante un'iscrizione con la firma e una frase in latino di autocelebrazione: "Pietro Perugino, pittore insigne. Se era stata smarrita l'arte della pittura, egli la ritrovò. Se non era ancora stata inventata egli la portò fino a questo punto." 



Perugino, Prudenza e Giustizia sopra sei Savi antichi e Autoritratto, 1496-1500, Collegio del Cambio, Perugia - Public Domain via Wikipedia Commons

L'Annunciazione è un dipinto murale, eseguito dal Pinturicchio all'interno della Cappella Baglioni (o "Cappella Bella") della Chiesa Collegiata di Santa Maria Maggiore a Spello (Perugia). Nel lato destro, sotto una mensola di libri, è appeso un autoritratto dell'autore, accompagnato anche qui da una targa con la firma: BERNARDINVS PICTORICIVS PERVSINVS.


Pinturicchio, Annunciazione, Cappella Baglioni, Collegiata di Santa Maria Maggiore, Spello.

Il pittore, in questi due casi, non è uno dei personaggi presenti sulla scena. La sua presenza fisica è stata sostituita dalla sua autorappresentazione. Si tratta, in un certo senso, di una forma ibrida tra l'autoritratto situato e l'autoritratto autonomo. Anche qui la temporalità dell'evento raccontato e quella dell'autoritratto sono distinte e, in questo caso, la seconda precede la prima (il quadro appeso alla parete è stato sicuramente eseguito prima dell'evento raffigurato).
L'unione di firma figurata e firma testuale va qui ben oltre la manifestazione del riferimento autoriale, innalzando un vero e proprio monumento all'artefice dell'opera. I tempi sono cambiati: l'artista non ha più bisogno di mascherarsi dietro un personaggio della scena, ma può assurgere ormai al ruolo di protagonista dell'opera.


https://www.autoritratti.org/
https://it.pinterest.com/marisaprete/lo-sguardo-dellautore/

Fonti bibliografiche:

Omar Calabrese, Come si legge un'opera d'arte, Mondadori Università, 2006.
Martina Corgnati, I quadri che ci guardano, Compositori, 2011.
Rodolfo Pallucchini, Carpaccio, Le Storie di Sant'Orsola, Milano, 1958
Victor Stoichita, L’invenzione del quadro, Milano, il Saggiatore, 1998.

Stefano Zuffi (a cura di), Il ritratto. Capolavori tra la storia e l'eternità,  Mondadori 2000.


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