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lunedì 28 agosto 2017

Fuga dallo sguardo. “Film” di Samuel Beckett



E se lo sguardo avesse un effetto mortale sul guardato e quest'ultimo cercasse di fuggirlo a tutti i costi?

Nel 1964 Samuel Beckett termina la stesura della sua unica sceneggiatura per il cinema. Si tratta di “Film”, un cortometraggio di 22 minuti diretto da Alan Schneider. L'attore protagonista è Buster Keaton, che era stato negli anni '20 uno dei più importanti attori e registi del cinema muto.
Il film è totalmente privo di suono, a parte lo “shh!” onomatopeico pronunciato da una donna all'inizio. La parola e l'elemento uditivo hanno lasciato il posto a un silenzioso agire, perché tutto il film si concentra sulla funzione della vista.
Il nucleo centrale del film è il celebre assunto del filosofo empirista Berkeley: “esse est percipi” (l'essere è essere-percepito), cioè l'essere di ogni cosa, compreso l'uomo, consiste nel suo venir percepito e nient'altro.


La storia si configura come una continua fuga dallo sguardo: il protagonista, senza nome e senza volto, (in italiano viene nominato “Og”, che sta per Oggetto, traduzione dell'Ob - Object usato da Beckett nella sua sceneggiatura) cerca a tutti i costi di sottrarsi ad ogni percezione per eludere l'esistenza. Egli, in particolare, cerca di sfuggire allo sguardo di Oc (che sta per Occhio), perché lo sguardo è l'atto percettivo che conferisce essere. Il film, infatti, si apre e si chiude con l'inquadratura di un grande occhio aperto ed è girato, per la maggior parte delle scene, come se fosse una soggettiva di Oc. Quest'ultimo pertanto coincide con il punto di vista della macchina da presa e, conseguentemente, con quello dello spettatore.


Questo è un film sullo sguardo per eccellenza. L'apertura iniziale è un grande occhio indagatore, dicevamo. Fruga cercando Og. Lo coglie mentre fugge lungo un altissimo muro, avvolto da un ampio cappotto. Gli si mette alle calcagna senza più lasciarlo fino alla fine del film, fissandolo sempre di spalle. La regola stabilita da Beckett a questo proposito è la seguente: “sino alla fine del film Og è percepito da Oc da dietro e con un'angolazione non eccedente i 45°”.
Og, il cui volto è coperto da un fazzoletto, fugge per evitare di vedere e di essere visto, ma viene inevitabilmente percepito da tutti: da una coppia di passanti, da una vecchia fioraia, dagli animali che abitano la stanza in cui si rinchiude. Oc invece procede liberamente, “investendo” (verbo usato dallo stesso Beckett) con il suo sguardo ogni cosa che incontra e tutti quelli che ne vengono investiti ne sono anche spaventati, quasi annichiliti, perché incapaci di sostenerlo.


Se Og è colui che fugge da ogni possibilità sia di percepire che di essere percepito, Oc è invece colui che incarna la percezione stessa.
Og riesce a raggiungere il suo rifugio (Beckett nella sceneggiatura lo identifica con la casa della madre del personaggio, ricoverata in ospedale), una squallida stanza semivuota, con una finestra e il letto disfatto. Si chiude dentro a chiave, non accorgendosi che Oc è entrato insieme a lui e gli è ancora alle spalle. Quando Og penserà di essere finalmente al sicuro e al riparo da ogni sguardo (ha oscurato la finestra, ha coperto lo specchio, ha sbattuto fuori di casa il cane e il gatto, ha strappato l'immagine di un Dio dai grandi occhi appesa al muro, ha coperto la boccia dei pesci e la gabbia del pappagallo), si rilasserà su una sedia a dondolo con una cartella di foto in grembo. Le foto sono sette e mostrano varie fasi della sua vita, a partire dalla nascita. Alla fine, per eliminare ogni traccia di sé, distruggerà anche le foto, come se queste ultime rappresentassero lo sguardo del passato che ci osserva e ci riporta alla vita. Og le distrugge perché aspira al non–essere, mentre forse la fotografia ha a che fare con l'essere, con lo sguardo, con il perdurare nel tempo.


Rimosse finalmente tutte le minacce, Og si addormenta sulla sua sedia a dondolo. Oc allora ne approfitta per metterglisi davanti. Lo sguardo sveglia Og, che guarda in faccia il proprio inseguitore. Sul suo viso si dipinge una maschera d'orrore: di fronte non ha altri che se stesso. Og e Oc non sono altro che la stessa persona. O meglio, essi costituiscono i due frammenti di un sol uomo, che vagano nel mondo inseguendosi e sfuggendosi. Il soggetto della percezione, che era stato diviso in uno sguardo vorace e attivo (Oc) e un oggetto fugace e passivo (Og), viene ricostituito non appena diventa chiaro che lo sguardo deve nutrirsi di un oggetto e che l'oggetto esiste solo per essere percepito da uno sguardo. L'uomo, in quanto “visibile”, è un oggetto per gli altri, che possono percepirlo e, a sua volta, è istanza percipiente, in quanto “vedente”. E' questa il dramma della condizione umana: non si può fuggire alla percezione e dunque all'essere perché vedere ed essere visti sono inestricabilmente congiunti.
Nella sequenza finale Oc e Og si ritrovano faccia a faccia. Entrambi indossano una benda nera sull'occhio sinistro: in questo breve e terribile sguardo reciproco si ricompone l'essere e tuttavia quello sguardo dell'Io su se stesso è intollerabile, annichilente. Og si accascia sulla sedia coprendosi gli occhi con le mani, mentre Oc resta in piedi a scrutare l'altro. L'uomo resta pertanto scisso, incapace di ricomporre i propri due frammenti di “guardato” e “guardante”.


Og, nella sua ricerca affannosa del nulla, una volta rimossi tutti i possibili sguardi su di sé, scopre con orrore che il proprio maggior nemico non è che se stesso, perché non si può fuggire all'inevitabile autopercezione. Cosa succede a questo punto? “Film” si chiude come era iniziato, con un grande occhio che si apre e scruta. Forse Og riprenderà a correre e a tentare di nascondersi, in un ciclo perenne di fuga e di rincorsa. E' questa l'assurdità della condizione umana.
Il cinema si presta benissimo all'esplorazione della massima berkeleyana "esse est percipi", perché in un film l'oggetto non ha nessuna esistenza al di fuori della macchina che ne cattura l'apparenza e al di fuori dello sguardo dello spettatore.
Nella messa in scena filmica, Oc coincide per gran parte del film con la macchina da presa, che si ritrova investita dello statuto di personaggio con un ruolo attivo. La ripresa, infatti, è sempre in soggettiva, che alterna lo sguardo di Oc (preponderante) a quello di Og. Questo fa sì che nel corso dell'azione si verifichino molteplici sguardi in macchina: quelli dei due passanti, quello della vecchia fioraia, quello infine di Oc e di Og che si fronteggiano. Proprio questi sguardi in macchina costituiscono i vertici di tensione drammatica dell'intera pellicola. I protagonisti che vengono investiti dallo sguardo dell'autopercezione (e quindi della macchina da presa) inorridiscono e soccombono. Ma lo fanno guardando in macchina, coinvolgendo in questo modo lo spettatore, che occupa lo stesso posto della macchina, cioè dello specchio in cui ognuno percepisce se stesso. I personaggi soccombono, in conclusione, sotto l'azione del nostro sguardo. Perché lo sguardo dello spettatore ha una natura persecutoria e un effetto paradossale: tiene in vita e, al tempo stesso, annichilisce.
Esso è l'atto percettivo che conferisce esistenza e consistenza ai personaggi, ma è anche uno sguardo predatorio e speculare, uno sguardo ubiquo e monoculare come l'occhio implacabile della macchina da presa.
"Film" mette in crisi tutti i canoni del cinema di finzione, infrangendone i tabù: rivela il dispositivo tramite lo sguardo in macchina (che tuttavia provoca la morte di colui che lo attua) e non mostra mai di fronte il suo personaggio protagonista, impedendo l'identificazione da parte dello spettatore. Tutta la narrazione si risolve in un gioco conflittuale tra il campo e il fuori campo, cioè tra l'oggetto guardato e lo sguardo come soggetto della visione.
Ma c'è di più: tutti i personaggi del film  guardano lo spettatore; egli, dunque, non è l'unico detentore dell'atto del guardare, ma è anch'egli oggetto percepito. Perché, come ci ricorda Žižek, «lo sguardo è quel punto oscuro, quel punto cieco da cui l’oggetto osservato ricambia lo sguardo».
Ma, se nella visione lo spettatore è non solo soggetto, ma anche oggetto del guardare, e quindi di autopercezione, non rischia anch'egli di soccombere nel momento in cui si specchia nell'immagine dello schermo, che gli rimanda indietro lo sguardo?

Su Wikipedia c'è una buona sinossi del film, divisa scena per scena: https://it.wikipedia.org/wiki/Film_(film_1964)

Qui un frammento del film:




2 commenti:

  1. Molto, molto particolare. Non lo conoscevo, grazie per il link. Ho iniziato la visione e un primo commento che posso fare é : inquietante.

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    1. Grazie a te Paolo. E' inquietante, ma la visione ne vale davvero la pena.

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