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lunedì 8 maggio 2017

Cinema e follia

Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975), regia di Milos Forman

La follia è un tema molto presente nel cinema. Cesare Secchi, in uno studio che dura da diversi anni, ha catalogato ben 1115 pellicole in cui sono presenti storie e personaggi con tratti e sintomi psicopatologici. Specularmente, dall'inizio degli anni novanta a oggi si è constatato che in ambito medico-psichiatrico è decisamente aumentato l'interesse tanto per l'impiego dei mezzi audiovisivi quanto per i rapporti tra cinema e malattia mentale. Probabilmente ciò deriva dal fatto che cinema e psichiatria condividono lo stesso soggetto: pensieri, emozioni, motivazioni, comportamenti e storie di vita rappresentano per l'uno e l'altra la principale, complessa, materia di studio. La curiosità degli psichiatri nei confronti dei film nasce quindi dalle caratteristiche strutturali del linguaggio cinematografico. Il cinema, con l'uso delle immagini in movimento, riesce a riprodurre il funzionamento effettivo della mente umana meglio delle forme narrative classiche. Il cinema, "penetrando visivamente nella coscienza", ha i mezzi per analizzare gli interstizi reconditi della follia: primi piani, riprese "in soggettiva", montaggio, sovrapposizioni di immagini, effetto allucinazione, compressione del tempo e dello spazio, etc.. Il primo piano scandaglia e fissa ogni sfumatura, riuscendo a far cogliere allo spettatore il disagio psichico del personaggio senza bisogno di parole, ma facendo leva sul solo linguaggio visivo del corpo, il più immediato ed empaticamente efficace. Il montaggio cinematografico, equilibrando sequenze espressive, tempi reali, narrazioni metaforiche, è in grado di esprimere tutte le impercettibili nuances degli stato d'animo e attingere all'interiorità del personaggio.

La psicanalisi, coetanea del cinema, è stata subito colpita dalle somiglianze tra il linguaggio non verbale del cinema e i sogni, che come sappiamo rappresentano per i freudiani una porta privilegiata di accesso alla psiche profonda dell'uomo. Entrambi utilizzano l’astrazione, l’ambiguità, la stratificazione, la condensazione e lo spostamento. Il montaggio cinematografico cambia i tempi, gli spazi e associa le immagini senza dover seguire sequenze reali o logiche. E queste somiglianze, con il progredire delle tecniche di elaborazione delle immagini, sono divenute ancora più evidenti.
La curiosità reciproca tra psicanalisti e registi si è espressa per tutto il Novecento: spesso registi e sceneggiatori si sono ispirati, per produrre film a sfondo psichiatrico, agli scritti di psichiatri e psicoanalisti, anche se altrettanto spesso molte pellicole hanno trattato il problema con superficialità e scarsa accuratezza, mantenendo terminologie ormai desuete per la psichiatria ufficiale. In molti casi, tuttavia, la cinematografia è riuscita a veicolare temi difficili e argomenti scottanti, scuotendo e svegliando coscienze, innescando talvolta vere e proprie battaglie ideologiche.
Si potrebbe dire che tutto ebbe inizio quando, alla fine dell’Ottocento, il dottor Charcot iniziò a fotografare i malati della Salpêtrière: questo gettò le basi per la diffusione di massa di tematiche e problematiche mai prima uscite dall’ambito accademico e terapeutico.
E' stato così che la follia è diventato uno dei soggetti più affascinanti e maggiormente elaborati dal cinema. Quest'ultimo è riuscito a produrre su questo tema opere particolarmente ricche e complesse, frutto di un approfondito studio dei caratteri e in grado di addentrarsi nelle profondità dell'animo umano.
Molti film dedicati alla follia, sottolineando la crisi della razionalità e i risvolti inconsci del pensiero e del comportamento, hanno contribuito a indurre una presa di coscienza sulla precarietà della mente umana e a mettere in guardia il sentire comune dalle trappole del pregiudizio. Alcuni studi hanno dimostrato che l'atteggiamento dell'uomo comune nei confronti delle persone affette da un disturbo mentale è più fortemente influenzato dalle rappresentazioni offerte dal cinema e dai media in generale che dalle impressioni derivanti da un contatto diretto con i malati.
Come già anticipato, non tutta la cinematografia che tratta il tema dei disturbi mentali lo fa in modo accurato e approfondito. Nella maggior parte dei casi, la rappresentazione cinematografica della patologia psichica si basa su stereotipi caratterizzanti. La narrazione della malattia perde verità e complessità e il malato resta bloccato negli schemi narrativi dei film di genere. Non di rado, un certo tipo di film ha contribuito a mantenere, e persino a creare, molti luoghi comuni sulla malattia, facendo, ad esempio, dello squilibrato mentale un mostro omicida, il serial killer maniaco che mette a punto esecuzioni spettacolari e dal sadismo ricercato.
Il binomio cinema e follia trova posto in modo trasversale in diversi generi cinematografici, dall'horror al noir e al thriller, dal dramma alla commedia. Gli studi presi in considerazione hanno rilevato, nelle pellicole analizzate, la presenza di disturbi di ogni area psicopatologica. Molto rappresentati sono i pazienti con disturbi psicotici e con disturbi della personalità; poi i personaggi con disturbi depressivi, quelli affetti da turbe ansioso-fobiche, quelli con manie ossessive e quelli affetti da disturbi mentali organici o pervasivi dello sviluppo. Frequente è la presenza di maniaci omicidi e di casi di personalità multipla (entrambi generalmente con eventi traumatici alle spalle legati soprattutto alla sfera familiare o sessuale), dell'alcolista o del disturbato dall'uso di sostanze psicogene, dell'artista affetto da angoscia e turbe depressive, dello spirito libero e ribelle rinchiuso in manicomio, del reduce di guerra, del nevrotico con fobie o manie ossessivo-compulsive. Le prime due tipologie sono di frequente trattate in modo più spettacolare che realistico, essendo spesso nient'altro che il pretesto di una trama thriller oppure horror giocata tutta su suspence e tensione.


Nella foto, uno dei folli probabilmente più conosciuti della storia del cinema, il Norman Bates (Anthony Perkins) di Psycho (1960) del grande Alfred Hithcock. Questi aveva acquistato i diritti del romanzo Psycho, scritto da Robert Bloch e ispirato alle vicende dello psicopatico assassino Ed Gein. Hitchcock tratta, in chiave psicoanalista, la follia di un giovane timido e voyeurista, affetto da turbe di natura sessuale scatenate dall'invadenza dell’autoritaria madre. Il caso clinico ha il classico sdoppiamento della personalità, con complicazioni edipiche e fobie di vario genere.
Il film è già un classico esempio della difficoltà da parte del cinema di elaborare una narrazione realistica e accurata riguardo la malattia mentale. Hitchcock, infatti, sembra lasciarsi trasportare dal richiamo della suspense e da esigenze esclusivamente cinematografiche; e così il racconto di Pshyco si snoda seguendo le regole della tensione horror e dello spettacolo d’effetto.

IL FOLLE DA UN ALTRO MONDO
Film di fantascienza o dramma sulla malattia mentale? Anche dopo averlo visto fino alla fine, il dubbio resta. Stiamo parlando di “K-Pax. Da un altro mondo”, pellicola uscita nel 2001 e tratta dal romanzo omonimo di Gene Brewer.

K-pax. Da un altro mondo, 2001, regia di Iain Softley.
Il personaggio principale, magistralmente interpretato da Kevin Spacey, è un tizio che si fa chiamare Prot. Lo troviamo, come apparso dal nulla, alla Stazione centrale di New York, coinvolto in una rissa. Ai poliziotti intervenuti asserisce placidamente di provenire da un altro pianeta, K-Pax. Chiaramente le dichiarazioni sulle sue origini fanno dubitare della sua sanità mentale e così viene portato in un ospedale psichiatrico di Manhattan. Un alieno tra gli alienati.
Prot non sembra malato, non è aggressivo ed è in grado di comunicare molto bene. Al dottor Powell che lo cura, interpretato da Jeff Bridges, dimostra di avere superiori conoscenze in astrofisica e descrive il proprio pianeta come un luogo idilliaco, che ha raggiunto stadi superiori di evoluzione, dove regnano la pace e la felicità. Inoltre è dotato di un grande carisma, in grado di esercitare notevole influenza sugli altri pazienti, che risentono positivamente della vicinanza e della carica dinamica di Prot.
Tutto il film si gioca sull’identità da fornire alla diversità di questo personaggio: diverso perché alieno o perché malato mentale vittima di uno sdoppiamento di personalità? Nel tentativo di conoscere e decifrare la presunta psicosi del suo paziente, infatti, lo psichiatra scava nella vita dell’uomo e scopre un trauma terribile e doloroso nel suo passato. Il film tuttavia non scioglie il dubbio fino in fondo e il confine tra ragione e follia resta incerto ed evanescente fino alla fine.
Questo film ci permette di riflettere su un concetto, che riguarda molto da vicino il percorso che stiamo compiendo sulla storia della follia. Ma torniamo un attimo indietro.
A partire dal XVII​ secolo si afferma in Occidente il dominio della ragione scientifica, che esclude totalmente la follia dal proprio orizzonte. In particolare il pensiero Cartesiano presenta il dualismo ragione/follia in maniera tale che l’una appare in un rapporto di alterità completa rispetto all’altra. Nei confronti dell’ordine imposto dalla ragione, la follia non è altro che un’aberrazione, ciò che non ha diritto di essere e va corretto.
E’ per questo motivo, scrive Foucault, che il folle si vede privato della parola che il Medioevo, con le feste dei folli, la letteratura e la pittura sul tema della follia, gli aveva assegnato. I folli vengono pertanto rinchiusi, eclissati, perché la loro stessa esistenza mette in pericolo l’ordine costituito. Sì, perché la ragione della modernità è una ragione “normativa”, in quanto definisce un ordine razionale, costituendo in questo modo il fondamento di una cultura, la cultura occidentale.
Cos'è dunque questa ragione che si oppone alla follia? Il fondamento di una norma sociale, che la cultura moderna riconosce come conforme a un ordine razionale del mondo. Una norma sociale imposta e garantita da un sistema coercitivo di sorveglianza e di polizia. Se da una parte, tutto ciò che non si conforma a tale cultura è dichiarato irrazionale, d’altra parte la follia esiste solo in rapporto a quella cultura che l’ha dichiarata tale. In poche parole, se normalità equivale a "norma", allora non è altro che una convenzione.
Ma a questo punto si impongono degli interrogativi. Possiamo ridurre la follia solo a ciò che non è conforme a una norma sociale? E’ possibile definire la follia indipendentemente dal confronto con una cultura specifica? Esiste la follia in quanto tale o dobbiamo sempre considerarla in rapporto a un dato ordine normativo? Sono queste le questioni che implicitamente emergono nel film K-Pax. 
Il personaggio centrale viene considerato pazzo e condotto in una clinica psichiatrica perché dichiara di venire da un altro pianeta. Questa dichiarazione cozza evidentemente con una norma sociale che giudica folli simili affermazioni. Tuttavia, mettendo da parte la norma sociale, ci accorgiamo che Prot fa ragionamenti e discorsi perfettamente coerenti, dotati di senso, addirittura matematicamente precisi ed è in grado di dire delle cose che affascinano non solo gli altri pazienti, ma perfino lo stesso medico, che resta intrigato da questo psicotico singolare. Il suo non è un delirio sconnesso, non è l'espressione di uno che sragiona.
Anche lo spettatore rimane nel dubbio. Di fronte a Prot, o si segue la pista dello psichiatra, convinto della propria diagnosi e all'ostinata ricerca del trauma all'origine della psicosi, oppure si pone attenzione sulla sensatezza del suo messaggio, considerandolo dotato di senso e di rigore formale. In questo caso, però, occorre rivedere radicalmente il concetto di ciò che giudichiamo razionale, e dunque normale.
Alla fine Prot, col proprio carisma da "alieno" e col proprio modo di porsi “altro” rispetto a quello sanitario-istituzionale della clinica, riesce ad avere sugli altri pazienti un effetto terapeutico e liberatorio più grande di quanto il dottor Powell sia mai riuscito a fare, arrivando persino a svegliare una donna dal proprio letargo mentale e a permettere allo stesso dottore di recuperare affetti e valori che la propria razionalità puramente scientifica e medica gli aveva fatto perdere. Se noi accordiamo al folle la parola, senza condannarlo in anticipo misurandolo alla norma sociale, allora è possibile trovare in lui una visione coerente dotata di senso e in grado persino di arricchirci, perché capace di aprire orizzonti nuovi, inusitati, rivoluzionari perfino.



I corridoi della follia
La rappresentazione del manicomio nel cinema ha subito dei cambiamenti notevoli nel corso del tempo. Se nei film anni venti, l'istituto psichiatrico era visto come un luogo oscuro e temibile, frequentato da psichiatri folli e criminali, tipo il Dottor Mabuse di Fritz Lang, a partire dal secondo dopoguerra la sua rappresentazione è quella, più realistica, di un luogo freddo e asettico in cui vige un protocollo di cura rigido quanto inconcludente, basato soprattutto sul ricorso alle terapie di shock, sia insulinico che elettroconvulsivo. Ecco l'elenco di alcune pellicole in cui troviamo questo tipo di rappresentazione:
La fossa dei serpenti (1948)
Il corridoio della paura (1963)
Family Life (1971)
Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975)
Per le antiche scale (1975)
Frances (1982)
Un angelo alla mia tavola (1990)
Shine (1996)
La maggior parte di questi film sono stati importanti nel sensibilizzare le masse sui problemi della condizione dei malati mentali e hanno avuto un ruolo nel processo di cambiamento che ha portato alla nascita delle strutture psichiatriche moderne e a nuovi modelli di cura.
Il 1947, ad esempio, anno in cui il regista Anatole Litvak presenta il suo film “La fossa dei serpenti” (The Snake Pit) è una data storica perché, per la prima volta nella storia del cinema, si rappresentava e si affrontava un istituto psichiatrico e i suoi sistemi di cura e riabilitazione. Il suo impatto negli Stati Uniti costituì indubbiamente una spinta alle riforme degli ospedali per malattie mentali di molti stati federali.
Alcuni registi, facendo proprie le istanze della nuova psichiatria, hanno voluto soprattutto mettere in luce il carattere autoritario e totalitario dell'istituzione psichiatrica, che plagia e subordina le menti, divenendo in questo modo strumento di un sistema di potere complessivo che mira a conservare l'ordine costituito. Un esempio è dato da Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975), col quale il regista, Milos Forman, mostra palesemente come i trattamenti contenitivi e anticonvulsivi servano solo a dominare il paziente, non a curarlo.
Negli anni duemila è impressionante il numero di pellicole, per lo più horror, ambientate in ex istituti psichiatrici tetri, fatiscenti e abbandonati, dai lunghi corridoi bui e dalle camere vuote, dove spesso rimangono i segni degli strumenti di contenimento e di detenzione usati nella struttura. L'elenco è molto lungo e comprende film come Asylum, Session 9, Gothika, Horror in the Attic, ESP – Fenomeni Paranormali, Hypnos, Madhouse, Fragile – A Ghost Story, Insanitarium, The Devil's Chair, The Ward – Il Reparto, Sanitarium, Dead Girl, Boo, Dark Feed.
Come era successo alle case stregate costruite su vecchi cimiteri indiani, nel cinema la cattiva storia torna sempre a galla e i rimorsi di coscienza si trasformano in film di paura che esorcizzano i brutti ricordi.
Elemento costante di queste pellicole è la presenza di inquietanti corridoi, interminabili e in penombra, che diventano quasi il topos della follia, la metafora di un percorso della mente verso la voragine della totale perdizione (in rete si trovano numerose foto di vecchi istituti psichiatrici e molte di esse si soffermano proprio sui lunghi corridoi dove si affacciano le camere).


Questo che vedete è un fotogramma del film Shock Corridor (Il Corridoio della paura) del regista americano Samuel Fuller.
Il film di Fuller e quello di Forman (Qualcuno volò sul nido del cuculo) usano la stessa strategia narrativa, utilizzando un uomo apparentemente sano di mente per evidenziare gli effetti brutali dei trattamenti psichiatrici sulla salute mentale e facendo, inoltre, dell'ospedale un microcosmo che diventa specchio della società americana, della sua follia conformista e delle sue paranoie.

La follia della guerra
Esiste una vasta filmografia che tratta storie caratterizzate da disturbi psichici derivanti da eventi traumatici e violenti, come i conflitti bellici. Il Disturbo da stress post-traumatico (PTSD) venne coniato per i veterani reduci dalla guerra del Vietnam ed è anche chiamato nevrosi da guerra, proprio perché inizialmente riscontrato in soldati coinvolti in pesanti combattimenti o in situazioni belliche di particolare drammaticità. Lo studio delle sindromi post-traumatiche sui reduci di guerra iniziò ad articolarsi compiutamente già durante la prima guerra mondiale, ma fu soprattutto in seguito al conflitto in Vietnam, data l'enorme presenza del disturbo tra i soldati che tornavano dal fronte, che il tema iniziò ad essere portato all'attenzione dell'opinione pubblica. E questo fu possibile anche grazie al cinema.


La filmografia sul PTSD post-bellico è infatti piuttosto ricca, prevalentemente statunitense. Ne fanno parte pellicole indimenticabili come Il cacciatore (1978) di Michael Cimino, Taxi driver (1976) di Martin Scorsese, Tornando a casa (1978) diretto da Hal Ashby (1978), Allucinazione perversa (1990) di Adrian Lyne (1990), il recente American Sniper, film del 2014 diretto da Clint Eastwood, che racconta la storia di un provetto cecchino arruolato in Iraq.
A questo link trovate il bellissimo finale di un altro film dello stesso genere, Birdy - Le ali della libertà (1984) diretto da Alan Parker, dove il protagonista reduce dal Vietnam, ridotto a uno stato catatonico, alla fine riuscirà a realizzare il suo sogno di sempre: "spiccare il volo" come un uccello.



Doppia identità
Una delle situazioni cinematografiche più suggestive ed emblematiche è lo sdoppiamento della personalità. Il romanzo di Robert Stevenson, Lo strano caso del dr. Jekyll e del signor Hyde, che l’autore scrisse nel 1886, è stato portato sul set sin dal 1920. In seguito, molti registi hanno attinto al modello di questo romanzo: la personalità si sdoppia in due figure speculari, quella del bene e quella del male, che si attraggono e si odiano reciprocamente. Come nel racconto di Stevenson, spesso la seconda personalità che emerge dalla prima presenta, portati alle estreme conseguenze, i tratti che mettono in discussione i valori e le norme sociali introiettati dall'io cosciente del personaggio: libertinismo, trasgressione, amoralità, crudeltà.
Il racconto di Stevenson metteva a nudo le tensioni che covavano latenti sotto la composta superficie della conformista società vittoriana. Una società che aveva tenacemente bandito qualsiasi forma di trasgressione. Il dr Jekyll, puritano e castigato, sotto l'effetto della pozione, libera la sua personalità repressa, un individuo dai tratti selvaggi e preda degli istinti primordiali.
Nel linguaggio medico, il disturbo dissociativo dell’identità (o disturbo di personalità multipla) è un processo mentale che porta una persona a comportarsi come se la propria mente fosse abitata da due o più personalità completamente diverse tra loro, spesso in conflitto, che periodicamente prendono il controllo dei suoi comportamenti, senza che la personalità principale ne sia cosciente. Al suo “risveglio”, il soggetto vive uno stato di amnesia con la sensazione di “buchi temporali”.
La ricerca è portata a stabilire che questi stati derivino da forti traumi, che generalmente avvengono in giovanissima età e che generano la frammentazione non integrata degli stati dell’io: la mente, nel tentativo di proteggersi, causa danni ancor più devastanti, provocando una destrutturazione e una dissociazione del proprio io.
La vasta rappresentazione di casi di personalità multiple nel cinema, quasi esclusivamente americano, è dovuta, probabilmente, alle grandi potenzialità drammatiche e narrative offerte da questo tipo di patologia. Essa ha trovato espressione nel cinema fin dagli inizi, ad esempio in alcuni film di Hitchcock, come Io ti salverò e Psycho. Ne La donna dai tre volti (1957, regia di Nunnally Johnson), basato su una storia vera, troviamo la protagonista Eva White/Eva Black (Joanne Woodward, Premio Oscar come migliore attrice protagonista), affetta da un disturbo da personalità multipla, che guarisce grazie alla rievocazione di un ricordo infantile traumatico.
In Magic (1978) di Richard Attenborough, uno schizofrenico, magistralmente impersonato dall’attore Anthony Hopkins, svolge la professione di ventriloquo, e a poco a poco si identifica col pupazzo, arrivando a commettere atti diabolici e omicidi.
Nel recente Split, uscito all'inizio di quest'anno e diretto da M. Night Shyamalan, le personalità che convivono nel protagonista arrivano al numero di ventitrè!
Spesso, in questo tipo di film, la storia narrata o alcune sequenze si rivelano, con un colpo di scena finale, solo l'allucinazione psicotica del personaggio con disturbo dissociativo della personalità. Come se il film si svolgesse dentro la sua psiche, la quale crea una sorta di realtà parallela.
L’altrove diventa un rifugio che occupa uno spazio sempre maggiore, fino ad annullare la percezione della realtà. In Shutter Island, ad esempio, solo alla fine del film lo spettatore si rende conto di aver assistito a una storia svoltasi per lo più nella mente del protagonista.
Questa è una lista dei film più noti in cui viene presentato il disturbo di personalità multipla:
Io ti salverò (1945)
La donna dai tre volti (1957)
Psycho (1960)
Il diario di una schizofrenica (1969)
Le orme (1975)
L’inquilino del terzo piano (1976)
In cerca di Mr. Goodbar (1977)
Magic (1978)
Vestito per uccidere (1980)
Doppia personalità (1992)
La metà oscura (1993)
Schegge di paura (1996)
Fight Club (1999)
Io, me e Irene (2000)
Confessioni di una mente pericolosa (2002)
Alta tensione (2003)
Identità (2003)
Two Sisters (2003)
Secret Window (2004)
Il cigno nero (2010)
Shelter (2010)
Shutter Island (2010)
Split (2017)
A Hitchcock è sempre stato caro il tema dell'identità. Nei suoi film troviamo casi di identità perdute, sdoppiate, confuse (Io ti salverò, La donna che visse due volte, Intrigo Internazionale). Ma è con Psycho che il regista si spinge fino all'estremo di una identità dissociata, quella del protagonista Norman Bates, che a volte è se stesso e a volte la propria madre. Omen nomen, la personalità duplice del personaggio è già celata nel suo nome, Nor-man, non-uomo, in quanto non è né un uomo né una donna, ma è l'uno e l'altra insieme, perché la personalità di sua madre è racchiusa nella sua mente e non smette di tiranneggiarlo.
Il tratto geniale di questo film è come il regista sia in grado di rendere tutto ciò esclusivamente attraverso i mezzi del cinema.


Si veda in questa sequenza come la doppia identità del protagonista ci venga suggerita da alcuni indizi: l'ombra proiettata dal suo busto sul muro, gli uccelli rapaci impagliati, che sembrano quasi sul punto di ghermire la loro preda (un rimando alla natura rapace della personalità della madre racchiusa nel protagonista che di lì a poco “ghermirà” la ragazza), il volto di Norman illuminato solo per metà, perché la luce laterale lascia l'altra metà in penombra. Tutti questi elementi evidenziano la doppiezza della personalità dell'uomo, che invece si mostra alla donna nel suo aspetto più normale e genuino, celando le sue pulsioni di morte. L'uso sapiente del bianco e nero si avvale della potenza espressionistica del contrasto tagliente tra il buio e la luce per esprimere la forte e celata drammaticità della situazione.
Psycho può essere considerato il diretto discendente del capostipite di questo tipo di rappresentazioni, cioè Il dottor Jekyll e Mr. Hyde, divenendo a sua volta un modello a cui si ispireranno molti registi futuri.

Spencer Tracy interprete del doppio ruolo di Dr. Jekyll e Mr. Hyde in una versione cinematografica del 1941, per la regia di Victor Fleming.

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