Tiziano Vecellio, Venere allo specchio, 1555 ca. |
La maggior parte degli spettatori direbbe che questa foto ritrae una donna mentre contempla la propria immagine speculare. Ma, in base all'orientamento dello specchio e alle leggi dell'ottica, è fisicamente impossibile per lei vedere il proprio riflesso nello specchio se contemporaneamente lo vedo anche noi. Questa illusione della percezione è conosciuta come effetto Venere (Venus effect).
L’effetto Venere è dunque un fenomeno della psicologia della percezione, che deriva il suo nome da una serie di dipinti il cui soggetto è la dea Venere che si riflette in uno specchio.
Il pittore, dipingendo il quadro, si è sforzato di ricreare l' esperienza del guardarsi allo specchio, non necessariamente di riprodurre ciò che effettivamente vedeva in quel momento, guardando la propria modella in posa. Questa è una possibile interpretazione.
Un'altra interpretazione, invece, lascia aperta l'ambiguità della situazione.
L’osservatore solitamente crede che Venere stia guardando la propria immagine speculare e che pertanto il quadro costituisca un evidente esempio di riflessione interna (o intransitiva: lo specchio riflette un elemento che appartiene allo spazio figurativo dell'opera); invece, dato che l’osservatore vede il volto di Venere nello specchio, la dea sta guardando non se stessa, ma l’osservatore o il pittore. Se, cioè, lo specchio ci mostra il viso di Venere che ci guarda è perché, suo malgrado, Venere non vede la sua, ma la nostra immagine riflessa.
L’effetto è intrigante: noi spettatori vediamo nel quadro la dea e la sua immagine riflessa dallo specchio. La dea, a sua volta, guarda la nostra immagine dentro lo specchio. La realtà rappresentata nel dipinto contiene in questo caso più di quanto noi vediamo. Cioè il riflesso di colui che guarda dall'esterno della scena. Non solo. Il rapporto con il dipinto non si esaurisce nell’azione a senso unico del “guardare” da parte dello spettatore, ma l’interazione è a doppio senso, in quanto lo spettatore è a sua volta “guardato”.
Nel caso dell'effetto Venere, il rispecchiamento ha una funzione transitiva, nel senso che, tramite lo specchio, il quadro instaura un rapporto con lo spettatore, completando così il suo senso in un rapporto dialogico. Per compiersi, l'immagine ha bisogno di uscire da se stessa e di andare al di là dello spazio figurativo che le è proprio. (Cfr. http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/leparole/meninas.htm)
Normalmente è la frontalità, o comunque lo sguardo diretto, a istituire una funzione dialogica con lo spettatore. In questo caso, tramite lo specchio, questa funzione transitiva è invece nascosta, mascherata da qualcos'altro, cioè da un atto di autoriflessione. Lo specchio diviene lo schermo che dissimula il guardarsi reciproco sotto forma di un mondo chiuso che ha la forma iconica dell'autocontemplazione.
Anche in questa opera del Veronese è presente l’effetto Venere. Il punto di vista del pittore (e dell'osservatore) è tale che è impossibile, per le leggi dell’ottica, che la dea Venere stia in quel momento ammirando la propria immagine riflessa. Inoltre il suo sguardo nello specchio punta proprio verso lo spettatore.
Eppure gli spettatori sono per lo più portati a credere che Venere si stia effettivamente specchiando, cioè che ella veda nello specchio esattamente quello che vedono loro. La nostra mente, cioè, tende ad interpretare “a priori” la scena, attribuendole magari un significato narcisistico (la dea sta ammirando la propria bellezza), dimenticando che ella ha un punto di vista completamente diverso rispetto al nostro e che, pertanto, non può vedere il suo viso nello specchio, se lo stiamo vedendo noi.
Veronese, Venere allo specchio (1585 circa), Joslyn Art Museum, Omaha, Nebraska. |
In questo dipinto di Rubens, Venere allo specchio, questo oggetto serve anche per mostrare sulla tela un elemento che altrimenti non sarebbe visibile allo spettatore. Infatti la dea è girata di spalle lasciando scorgere solo il profilo del viso, ma grazie all’immagine riflessa sullo specchio riusciamo a vederne il volto per intero.
L’effetto Venere è usato spesso anche nel cinema, dove l’attore viene mostrato mentre guarda (apparentemente) se stesso allo specchio. Ma questa è solo una deduzione che fa la mente dell’osservatore. Quello che lo spettatore vede riflesso nello specchio, infatti, è diverso da ciò che vede l’attore, perché la telecamera non è esattamente posizionata alle spalle di quest’ultimo; eppure questo è un espediente efficace affinché lo spettatore possa interpretare la scena nel senso voluto dal regista, cioè immaginando che in quel momento il personaggio si sta guardando effettivamente nello specchio.
Peter Paul Rubens: Venere allo specchio, 1615, Olio su tela. Vaduz, Sammlung Fürst von Liechenstein. |
Concludiamo questa quaterna di Veneri allo specchio con la celebre opera di Velásquez “Venere e Cupido” (detta anche “Venere allo specchio” o “Venere Rokeby”), databile al 1648 circa.
Gli unici nudi femminili di tutta l’arte spagnola fino a questo periodo, a oggi noti, sono la Venere del Velásquez, appunto, e la Maja desnuda di Goya, entrambi destinati a una fruizione privata. In Spagna le immagini di nudo, anche quelle di soggetto mitologico tipiche della pittura europea del tempo, erano proibite dalla Chiesa e punite dall’Inquisizione.
L’opera è stata realizzata in Italia alla fine del secondo soggiorno romano di Velázquez (1649-1659), e probabilmente la modella impiegata era una giovane pittrice e sua amante.
La dea è nuda, ritratta di schiena per non incorrere nelle ire degli inquisitori spagnoli. Il contrasto cromatico è molto evidente fra i toni caldi della parte alta, usati per i tendaggi, e quelli freddi della parte bassa, impiegati per le lenzuola. Sono comunque colori che fanno risaltare ancor di più la morbida e luminosa carnagione della dea.
Pur essendo ritratta di schiena, il suo volto è visibile tramite il riflesso dello specchio tenuto da Cupido, e il suo sguardo incontra quello dell’osservatore, segno che la modella non stava guardando se stessa nello specchio, ma il pittore.
Velasquez è l'autore di un altro celebre dipinto, Las Meninas. In entrambe le opere l’autore ricorre al gioco degli specchi per ampliare la possibilità della rappresentazione, facendoci vedere contemporaneamente ciò che è davanti e ciò che è dietro.
Diego Velázquez, Venere allo specchio, 1648 circa, Londra, National Gallery. |
L'effetto Venere non riguarda solo delle opere in cui è presente la dea a far da soggetto. Vediamo, ad esempio, questa tela del pittore tedesco Hans Von Aachen:
Hans von Aachen, Coppia che ride con uno specchio, 1596. |
I quadri di Gumpp sono invece degli autoritratti. Ed anche qui è presente lo stesso effetto percettivo: per dare allo spettatore l’illusione che il soggetto si stia guardando nello specchio, viene dipinta all’interno di esso l’immagine di quel soggetto, ma ciò, per le leggi dell’ottica, non è possibile, perché i due punti di vista, quello dello spettatore e quello del soggetto nel quadro, sono diversi e, pertanto, non possono vedere entrambi la stessa immagine nello specchio.
A parte questi due autoritratti, non sono noti ulteriori dipinti del pittore austriaco del ‘600 Johannes Gumpp. In realtà si tratta dello stesso dipinto, realizzato dall’artista in due versioni. Jean-Luc Nancy, filosofo francese esponente del Decostruzionismo, nel suo studio sui ritratti pittorici, ha affermato che in questi due dipinti è palese l’intenzione dell’artista di affermare implicitamente la superiorità della pittura su ogni altro mezzo di riproduzione della realtà, compreso quello apparentemente fedele dello specchio, perché solo la pittura, e in particolare il ritratto, è in grado di svelare l’autentica e intima essenza del soggetto rappresentato.
Tre sono i soggetti dipinti: il pittore stesso di spalle, la sua immagine riflessa nello specchio, il suo autoritratto. Due sono i volti che compaiono alla vista, presentando due diverse somiglianze, tra loro lievemente, ma chiaramente dissimili: quella dello specchio, che riflette semplicemente il pittore che si guarda, e quella del quadro, in grado di riprodurre invece la profonda essenza del pittore stesso, di svelarne l’intimità.
La diversa fedeltà delle due somiglianze (riflesso e quadro) è sottolineata dagli animali domestici che assumono un simbolismo correlato, secondo l’inclinazione alle allegorie della cultura barocca: un cane significa la maggiore fedeltà del ritratto, capace di durare anche quando il soggetto che è stato raffigurato non è presente e di svelarne l’interiorità e l’essenzialità; un gatto rivela invece la maggiore conformità e precisione, ma anche la fugacità della riflessione speculare, fedele solo nel breve tempo in cui una presenza si specchia. “Lo specchio mostra un oggetto: l’oggetto della rappresentazione. Il quadro mostra un soggetto: la pittura all’opera” (Jean-Luc Nancy, Le Regard du portrait, Paris, Galilée 2000). Ma tra i due in conflitto c’è in realtà un terzo, il pittore stesso in primo piano, inquietante ed inafferrabile con il suo volto invisibile, con il suo sguardo nascosto, una massa scura rivolta verso di noi.
Johannes Gumpp, ‘Doppio autoritratto allo specchio’ (1646), versione rotonda, Corridoio Vasariano, Firenze | Johannes Gumpp, Doppio autoritratto allo specchio (dopo il 1646), versione rettangolare, Schloss Schönburg Galerie, Pöcking |
Al dipinto di Gumpp rimanda questo famoso Triplice autoritratto di Norman Rockwell.
Rockwell è conosciuto soprattutto come l’illustratore del Saturday Evening Post, di cui firmerà 323 copertine, avendo per soggetto soprattutto l’American Way of Life. Rockwell è un americano che disegna e dipinge l’America da prima della Grande Guerra fino agli anni ’70, mostrandoci un paese che rappresenta ancora la terra dove tutti i sogni e le speranze sono realizzabili, convinto dei valori di solidarietà e umanità del New Deal a cui rimase sostanzialmente attaccato fino alla fine.
Nel 1960 venne pubblicata la sua autobiografia My Adventures as an Illustrator. Il Post presentò estratti da questo libro per ben otto edizioni consecutive, la prima delle quali includeva il celeberrimo Triple Self Portrait (Triplice Autoritratto), in cui l’artista si rappresenta nell’atto di rappresentarsi, cosicché la sua figura risulta ripetuta tre volte: di spalle davanti alla tela, disegnata sulla tela e riflessa nello specchio dove il pittore si guarda per riprodurre la propria immagine.
In realtà i ritratti sono sette, perché in questo quadro vediamo l’artista di schiena, che disegna se stesso sulla tela, mentre si sta specchiando. E questi sono i tre autoritratti del titolo. Ma ci sono anche quattro schizzi preparatori del suo volto attaccati sul cavalletto, dove sono presenti anche gli autoritratti di Durer, Rembrandt, Picasso e Van Gogh, a cui in questo modo l’artista rende omaggio, definendosi al tempo stesso loro successore. Il suo essere americano è testimoniato invece dall’aquila che corona lo specchio e da un bicchiere di Coca Cola.
Osservando l’immagine, pregna di grande auto-ironia, vediamo come Rockwell idealizza sulla tela l’immagine di sé: niente occhiali, pipa in bocca sollevata nella posa di alcuni divi del cinema, sguardo più giovanile e disteso. Sullo specchio campeggia il simbolo americano dell’aquila, sul cavalletto un elmo di un qualche esercito europeo, come se i due oggetti contrassegnassero uno l’immagine vera e autentica (genuina come l’arte americana) e l’altro l’immagine idealizzata e meno aderente alla realtà (tipica dell’arte europea), pur ribadendo che la prima è figlia della seconda.
Normal Rockwell, Triple Self-Portrait 1960, Cover for Sunday Evening Post, February 13. Collection of the Normal Rockwell Museum Stockbridge.
Questo effetto ottico non appartiene solo all'iconografia della dea Venere e agli autoritratti, ma continua ad essere usato diffusamente, oltre che nel cinema, anche in fotografia. E si noti come, in questa foto di Shapiro che ritrae Barbra Streisand, lo sguardo e il sorriso ambiguo dell'attrice dimostrino una consapevolezza di interazione con l'osservatore.
Barbra Streisand in the bathtub, Los Angeles. Photo by Steve Schapiro. |
Mia Farrow, photographed by Richard Avedon, New York, 1966. |
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