King Kong, regia di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, 1933. |
Il mondo della civiltà nel corso dei secoli si è venuto allontanando sempre più da quello della natura, per cui l’uomo civilizzato ha finito per guardare al secondo con un duplice sentimento: la nostalgia e il rimpianto per il mondo incontaminato da cui proveniamo e che abbiamo ripudiato, e la paura di esso come minaccia mai domata del tutto, sempre pronta a prenderci di sorpresa e ad aggredirci.
I film del genere catastrofico, di cui il primo King Kong può considerarsi un progenitore, mettono in scena questa natura che si ribella al controllo umano e mette in atto tutto il suo potenziale distruttivo. Questi attacchi rappresentano, almeno in un primo momento, il fallimento delle leggi della ragione scientifica con cui si è cercato di imbrigliarla e l’imprevisto ritorno a una qualche forma di terrore religioso. Non più principio rassicurante o finalizzato ai nostri desideri e al nostro benessere, la natura finisce per trasformarsi in una forza ostile ed estranea.
King Kong nacque dalla fantasia dei registi Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack e si impose subito come icona nell'immaginario collettivo a partire dalla sua prima, leggendaria apparizione cinematografica nel lontano 1933. Divenuto celebre per i trucchi all’epoca rivoluzionari, creati da Willis O’Brien (e costati uno sproposito), animato con la tecnica della stop motion, King Kong è una pietra miliare destinata a non invecchiare mai. Immortale la scena della scalata all’Empire State Building. Con due remake, quello del 1976 e quello di Peter Jackson del 2005.
La versione del 2005 contiene alcuni elementi nuovi, tra cui l’accentuazione del tema del viaggio iniziale verso un mondo sconosciuto e selvaggio. L’arrivo della troupe all’Isola del Teschio viene messa in parallelo con la lettura di Cuore di tenebr” di Conrad. Il viaggio dei protagonisti è accostato a quello di Marlowe alla ricerca di Kurtz. Entrambi i viaggi si svolgono verso una meta sconosciuta e terribile, lontana dalla civiltà, alla ricerca di qualcosa che però non vuole essere trovato. L’ignoto, in entrambi i casi, è spaventoso e pericoloso. L’isola ci viene rappresentata come un posto tetro, selvaggio e soprattutto primitivo; i suoi abitanti rappresentano la natura più profonda e selvaggia dell’uomo non ancora toccato dalla civiltà.
Tutt'altro che semplice creatura fantastica, King Kong è in realtà una complessa allegoria del nostro tempo, dove l'Uomo è diviso fra il sogno di fondersi con la Natura e la spinta a dominarla in nome della «civiltà».
Numerose sono state le interpretazioni di questa pellicola: da quella socio-politica a quella psicoanalitica, secondo la quale King Kong è l'incarnazione delle nostre pulsioni più profonde, troppo spesso censurate e represse: il desiderio, la volontà di potenza, il sesso. L'autore e critico francese Jean Boullet ha scritto: « A riguardarlo, ancora oggi si resta favorevolmente colpiti dalla qualità del montaggio, della scenografia, degli effetti speciali, e dalle possibili letture che suggerisce.
King Kong è un emozionante film di avventure; ma anche un film su un amore impossibile (buon esempio di trasposizione cinematografica della favola della bella e della bestia); una lezione di erotismo (indimenticabili le scene in cui il gigante strapazza con l'unghia il vestito della bella biondina e quella in cui la osserva fuori da una finestra); ed un film "politico", per la tematica del "diverso" e per la denuncia (probabilmente inconsapevole da parte degli sceneggiatori) del sistema capitalistico americano che tutto spettacolarizza e consuma... »
A ben considerare, la grandezza del film non è solo nell'aver riproposto, reinterpretandolo, il conflitto natura e civiltà, ma nell'aver messo sullo stesso piano le due isole: quella misteriosa e arcaica, dalla quale il gorilla viene strappato e Manhattan, i cui rituali urbani sono d' altra natura ma di altrettanta cieca ferocia. Giungla e città sono insomma due mondi contrapposti, ma non per questo il secondo impone un suo primato etico. King Kong, metafora suprema dell’alterità rispetto alla società americana del tempo, nonostante la sua furia distruttiva, conserva alla fine la sua innocenza, e la sua sconfitta finale ha più i toni ineluttabili della tragedia che quelli celebrativi del trionfo della ragione sull'istinto.
Funziona in queste narrazioni uno schema archetipo: la catastrofe portata sugli schermi, viene - nel momento stesso della sua rappresentazione - esorcizzata, depotenziata. Raffigurare un male, rappresentare un pericolo, significa già esercitare un controllo su di essi. A questo proposito, significativa è la scena finale in cui il gigantesco gorilla viene abbattuto proprio sull’Empire State Building, smisurato anch’esso e simbolo della grandezza della civiltà e della tecnologia degli uomini. Entrambi sono terrificanti nella loro sproporzione, ma mentre il primo è capace di gesti di umana tenerezza, il secondo risulta immobile e chiuso nella sua sovrana e sovrumana indifferenza. Con King Kong comincia l’enfatizzazione reciproca e simbolica di grattacieli e di mostri (o catastrofi naturali o invasioni aliene): nei disaster movie la distruzione comincia sempre dai grattacieli delle metropoli.
Al di là di ogni attribuzione simbolica, il King Kong dello schermo è alla fine solo un’icona di grande e terrificante spettacolo. La civiltà moderna ha smesso di intrattenere rapporti magici o rituali con il mondo animale e da tempo l’ha spogliato dei significati simbolici che per secoli hanno caratterizzato il rapporto uomo-animale. Tale relazione si è costituita nel mondo moderno su criteri puramente utilitaristici, come semplice uso e consumo. Per cui quando l’uomo trasfigura l’animale, lo fa nella forma prosaica, e in un certo senso ancora consumistica, dello spettacolo.
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