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lunedì 29 gennaio 2024

Sintetico e biometrico. Il valore indicale della fotografia nell'era delle sintografie

Immagine generata con Image Creator


La fotografia è dunque morta? A giudicare dai numeri sempre in crescita delle immagini condivise quotidianamente, sembrerebbe proprio di no. Eppure il rapido diffondersi delle sintografie (cioè delle immagini generate da AI che sembrano fotografie) mette in crisi profonda l'affidamento nella valenza indicale e rappresentativa che per quasi due secoli ha definito il medium fotografico. La difficoltà sempre maggiore nel distinguere tra un prelievo fotografico e una generazione sintetica incrina infatti quel presupposto fondamentale - il ça a été barthesiano - su cui si è costruita la fiducia culturale nella fotografia come testimonianza del reale.
Le sintografie si presentano sempre di più come imitazioni perfette della fotografia, ne riproducono lo stile, la grana, la coerenza ottica, ma ne infrangono il presupposto ontologico: non derivano da un evento né da un incontro con la luce del mondo, e quindi non possiedono alcuna forma di indicalità, nessun legame causale con un referente fisico. Si può riscontare qualcosa del turbamento prodotto dalla loro diffusione nel recente proliferare di pagine social che condividono immagini di sculture, dipinti, ricami o altri manufatti prodigiosi, che se fossero autentici richiederebbero una grandissima abilità e moltissimo tempo di lavoro. Ma che in realtà nessuno ha realizzato perché si tratta di immagini generate da AI. I commenti di apprezzamento - rivolti non all’immagine in quanto tale, ma all’oggetto rappresentato (“complimenti, scultura meravigliosa”) - rivelano quanto sia ancora forte l’aspettativa che un’immagine fotograficamente convincente rimandi a un mondo materiale esistente, con una collocazione spazio-temporale precisa, anche se comincia a registrarsi un'inversione di tendenza, che si esprime in uno scetticismo diffuso rivolto alle immagini pubblicate.
La fotografia, del resto, porta con sé fin dalla nascita la duplice natura di traccia e di costruzione: è al tempo stesso un’impronta del reale e una messa in forma, un dato fisico e un gesto interpretativo. Le sintografie condividono anch’esse una duplicità, ma di ordine completamente diverso: da un lato sono costruzioni immaginative modellate dal prompt, dall’altro incorporano l’immenso patrimonio visivo assorbito dal modello durante l’addestramento. Ciò che manca loro è proprio quell’esperienza di mediazione materiale con il mondo che da sempre ha investito la fotografia di un ruolo particolare.
A prima vista, pertanto, si direbbe del tutto archiviata la tradizione del fotografico come traccia e come segno indicale.
Ma è proprio così?
Più che una scomparsa, sembra piuttosto delinearsi un doppio registro dell’immagine, due regimi paralleli che rispondono a funzioni e logiche differenti. Da una parte, nelle pratiche visuali di massa - comunicazione quotidiana, social, creatività amatoriale - prende piede in modo sempre più pervasivo l’immagine sintetica. Non solo attraverso i modelli generativi, ma anche tramite applicazioni che intervengono direttamente sul processo fotografico, alterando la scena già in fase di ripresa oppure operando in postproduzione attraverso filtri, correzioni automatiche, sostituzioni di elementi, “abbellimenti” e ampliamenti. Qui la fotografia si dissolve in un continuum di manipolazioni, diventando un punto di partenza per immagini che non aspirano più alla registrazione del mondo, ma alla costruzione di apparizioni convincenti, desiderabili, condivisibili.
Dall’altra parte permangono, e anzi si intensificano, tutte quelle pratiche che continuano a utilizzare la fotografia come traccia biometrica, come indice che punta verso un referente esterno concreto. In questi ambiti la fotografia mantiene la sua funzione di registrazione ottica e viene impiegata per riconoscere individui, analizzare azioni e comportamenti, misurare risposte emotive, identificare tratti somatici o caratterizzare ambienti e contesti. È il dominio della sorveglianza, della sicurezza, dell’analisi dei flussi e delle condotte, dove la fotografia - in quanto immagine prelevata dal mondo - conserva il suo valore indicale proprio perché fornisce alle macchine ciò che le sintografie non possono offrire: un contatto causale con un evento, un corpo, un luogo. In questo secondo registro la fotografia non è affatto depotenziata: viene piuttosto riassorbita in un’economia politico-tecnologica della visibilità, nella quale le tracce biometriche e comportamentali vengono trasformate in dati, aggregate, correlate e interpretate direttamente da sistemi automatici. È qui che la fotografia, lungi dal morire, diventa una parte cruciale dell’infrastruttura computazionale contemporanea. 
Fin dall'Ottocento, la fotografia è stata utilizzata come un dato biometrico. Secondo l’articolo 4 del GDPR, i dati biometrici sono definiti come "i dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici". La fotografia costituisce un dato biometrico quando è utilizzata per identificare univocamente una persona attraverso caratteristiche specifiche, come l’immagine del viso. Ad esempio, la fotocamera può essere utilizzata per l’autenticazione nell’accesso ai dispositivi elettronici o nel riconoscimento facciale. Questa funzione non è  certo una novità dell'epoca dei big data e del riconoscimento automatico: l’uso biometrico della fotografia nasce con le prime pratiche di schedatura poliziesca nella seconda metà del XIX secolo, quando l’immagine del volto diventa uno strumento per classificare e identificare scientificamente gli individui.
Il punto di svolta è rappresentato dal bertillonage, il sistema ideato da Alphonse Bertillon negli anni Ottanta dell’Ottocento: una combinazione di misurazioni antropometriche, descrizioni morfologiche standardizzate e fotografie segnaletiche, realizzate con rigida frontalità e profilo, destinate a rendere riconoscibile con certezza un individuo all’interno degli archivi di polizia. In questo momento storico la fotografia viene esplicitamente trattata come “traccia” corporea e come dato fisico misurabile, inscritta in un regime epistemico che la considera un segno oggettivo dell’identità. Quest'uso della fotografia in quanto tecnologia di identificazione, classificazione e controllo si inscrive perfettamente nelle logiche dello Stato moderno e delle sue istituzioni disciplinari. Da allora, la fotografia come dato biometrico non ha fatto che intensificarsi e automatizzarsi, fino alle attuali tecniche di riconoscimento facciale basate su reti neurali. La fotografia diventa così un dispositivo di misurazione e riconoscimento, capace di tradurre tratti fisionomici, proporzioni corporee o indicatori comportamentali in dati valutabili e comparabili. Lo stesso principio può essere esteso ai contesti in cui il riconoscimento non riguarda solo persone, ma anche ambienti, oggetti e coordinate spazio-temporali. È il caso, ad esempio, delle pratiche di ricognizione militare, dove le immagini aeree o satellitari non vengono considerate per il loro contenuto estetico, ma per la loro capacità di restituire informazioni precise sulla conformazione del terreno, sulla posizione delle strutture o sui movimenti delle truppe. Anche qui la fotografia non vale per ciò che “è”, ma per ciò che permette di mappare, misurare e identificare nel mondo esterno.
Il valore di queste immagini non è immanente alla loro forma visiva, bensì derivato: risiede nella loro funzione di tracce indiziarie, di segni che rinviano a persone, oggetti o spazi del mondo fisico che esistono al di fuori della fotografia stessa. In tutte le pratiche sopra citate, la fotografia opera come un supporto tecnico dell’identificazione, un vettore di informazione che registra e conserva la presenza di un ente, rendendolo nuovamente accessibile in assenza dell’originale. In questo modo l’immagine diventa un punto di passaggio tra la realtà osservata e il sistema di conoscenza o di controllo che la interpreta. Non si tratta, inoltre, di immagini finalizzate all'esposizione, alla condivisione, alla loro visibilità, ma immagini che restano sotto traccia, che per la gran parte della loro esistenza circolano e si depositano come insiemi di bit, in forme non visibili da occhio umano e che confluiscono in grandi database per lo più non accessibili.
Sembra quasi un paradosso: il sintetico organizza e dà forma sempre più alle pratiche immaginative e comunicative di massa degli esseri umani, diventando l’ambiente visivo in cui si articolano narrazioni, affetti, desideri. Il fotografico, invece, non potrà cessare di essere la materia prima per le macchine, che lo usano come materia prima nell'apprendimento e nell'impiego operativo. Continuerà a essere uno strumento privilegiato di conoscenza, di misurazione, di sorveglianza e controllo, tanto securitario quanto commerciale e scientifico, nelle mani di élite economiche, tecniche e socio-politiche.
Si delinea così una nuova divisione del lavoro delle immagini: mentre al sintetico viene affidata la dimensione immaginativa, plastica e narrativa dell’esperienza ordinaria, al fotografico è assegnata una funzione sempre più tecnica, indiziaria e infrastrutturale, legata al governo dei corpi, dei territori e dei comportamenti. Se il sintetico costruisce mondi di fantasia rispondendo all'immaginazione e ai desideri umani, il fotografico continua a circolare sotto forma di dati come materia prima per le macchine, spesso in forma automatizzata e lontano da sguardi umani,  contribuendo a misurare, ordinare e controllare il mondo reale in cui viviamo. 
L’universo della rilevazione, dell’analisi e dell’impiego dei dati fenomenici e biometrici - dati che, una volta estratti, diventano informazioni sul mondo e sui cittadini - rimane (e verosimilmente rimarrà) il luogo in cui il valore indicale della fotografia trova la sua affermazione più potente e duratura. Là dove le pratiche della memoria familiare e delle comunicazioni sociali hanno ceduto alla seduzione del ritocco estetico, della manipolazione e dell’ibridazione sintetica, gli apparati di governo, di sicurezza e di economia dei dati perseguono con sempre maggiore efficacia l’adeguamento rigoroso dell’immagine al suo referente, perché da tale aderenza dipende la riuscita dei loro obiettivi: riconoscere, classificare, prevedere, controllare. La gestione del potere, infatti, non può rinunciare al valore indicale della fotografia, alla sua capacità di prelevare tracce fisiche collocate in uno spazio e in un tempo determinati. La natura del potere è inseparabile dalla conoscenza situata del mondo materiale e delle condotte umane che lo attraversano. Per questo la fotografia, intesa come registrazione ottico-luminosa operata da un dispositivo puntato sul reale, continuerà a svolgere, anche all’interno dei più sofisticati sistemi di tracciamento e di elaborazione algoritmica, la sua funzione di identificazione e misura.
Ciò avverrà, tuttavia, in una forma mutata: la fotografia smette di essere necessariamente un’immagine destinata allo sguardo umano e diventa anzitutto un codice binario, un’immagine in potenza. Solo attraverso una successiva conversione in pixel visibili essa può tornare a essere immagine per noi; ma per le macchine, e per i dispositivi automatizzati di raccolta e gestione dei dati, essa funziona già perfettamente nel suo stato pre-visuale.
In conclusione, la fotografia non è affatto morta. Solo che la fotografia non è un oggetto fisso, dato una volta per sempre. Come scrive David Campany, la fotografia "deriva meno da ciò che è tecnologicamente che da ciò che è culturalmente. La fotografia è ciò che ne facciamo. E ciò che ne facciamo dipende da ciò che facciamo con le altre tecnologie di immagine" (https://davidcampany.com/safety-in-numbness/). Per lungo tempo abbiamo considerato la fotografia soprattutto come immagine traccia di un referente fisico. Le nuove tecnologie ci impongono di ripensarla entro nuovi perimetri, ma nel farlo è importante evitare una semplificazione pericolosa: pensare che le pratiche emergenti abbiano eliminato o reso superate le funzioni tradizionali del medium.
Prima di andare nel panico per l’invasione delle immagini sintetiche - che pur interrompono il rapporto causale con il reale - dovremmo forse concentrare l’attenzione sui modi in cui oggi viene ancora impiegata la fotografia tradizionale. È lì, nell’uso crescente della registrazione ottica come strumento di classificazione, monitoraggio e governo dei comportamenti, che si giocano le trasformazioni più profonde della nostra ecologia visiva.

Lungi dall’essersi spezzato, il legame tra le immagini e il mondo sembra oggi più saldo e, al tempo stesso, più ambiguo che mai. Nonostante si temi il distacco dal reale delle immagini sintetiche, ciò che meriterebbe maggiore attenzione è l’uso – sempre più pervasivo – delle immagini ottiche per esercitare presa sulla realtà e incidere direttamente sulle forme della vita sociale. Le tecnologie digitali contemporanee hanno amplificato la capacità della fotografia di penetrare, ordinare e controllare il mondo: un potere che era già implicito nel dispositivo fotografico, ma che oggi si dispiega con un’efficacia senza precedenti. Oggi, più che mai, la fotografia non si limita a registrare il mondo: lo modella, lo predice, lo anticipa. Diventa un’interfaccia che trasforma l’esperienza in dato, il corpo in informazione, il volto in pattern computabile. In questo senso, le immagini fotografiche non interrompono il rapporto con la realtà: lo intensificano, lo strutturano, lo rendono passibile di calcolo e intervento automatizzato. La loro potenza normativa supera di gran lunga il presunto “pericolo” delle immagini sintetiche, che al contrario rivelano la fragilità del paradigma rappresentativo, non la sua forza. Preoccuparsi delle immagini artificiali significa talvolta distogliere lo sguardo dal luogo in cui oggi si esercita il vero potere delle immagini: non nella fabbricazione del falso, ma nella produzione del vero; non nella simulazione di mondi alternativi, ma nella gestione capillare del mondo effettivo. Le nuove tecnologie non hanno disattivato la funzione indicale della fotografia: l’hanno resa più capace di governare, classificare e sorvegliare ciò che mostrano. È questa amplificazione del potere fotografico – e non la presunta fine del suo legame con il reale – a meritare, forse, la nostra attenzione critica.

sabato 27 gennaio 2024

Voce del verbo

Immagine generata E 3, usando come prompt il testo della poesia


Morire:

voce del verbo essere

tempo presente continuo

modo non finito

prima persona