Isabel Brison, Maravilhas de Portugal (2008) |
Generalmente si pensa che la fotografia possa essere divisa in due macro gruppi: la fotografia di realtà e la fotografia di finzione. Nel secondo caso la ‘finzione’ può derivare dal fatto che l’oggetto della foto sia una messa in scena o l’immagine stessa sia frutto di manipolazione.
Tralasciando qui il primo gruppo così come il tema del rapporto della fotografia con ciò che definiamo reale e di come sia labile e permeabile il confine tra i due gruppi citati, focalizziamo brevemente l’attenzione sul concetto di 'finzione', rilevando innanzitutto come questo termine, nella nostra cultura gravata dall'eredità platonica, non riesca a liberarsi di una sfumatura che denota 'falsità' e 'inganno'. A questo proposito, è utile fare una distinzione importante, quella tra fingere (pretend) e far finta (make believe). Se pretend ha un'accezione che significa volontà di ingannare, di dare l'illusione del vero (la pretesa dell'arte condannata da Platone), make-believe significa invece fingere senza intenzione di ingannare, dar vita a un tipo particolare di attività immaginativa.
Fatta questa premessa, il tema di questo articolo intende essere quello della fotografia di architettura che non restituisce immagini di costruzioni e di paesaggi urbani esistenti, ma di finzioni nel senso di make-believe.
Queste produzioni, per comodità, sono state divise in due gruppi: le immagini di architettura derivate da manipolazioni e fotomontaggi digitali e le fotografie vere e proprie di modelli architettonici in miniatura realizzati in studio.